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I MILESI

Aristotele, nella Metafisica, primo grande compendio storico della filosofia, indica come primi filosofi tre pensatori di Mileto, oggi città turca e allora importante centro commerciale e culturale dell'Egeo.
I tre filosofi, Talete, Anassimandro e Anassimene, si impegnarono a trovare un arché, un principio unico, fondamentale e incorruttibile, un qualcosa che rimanesse identico nell'eterno mutare della materia e che spiegasse la natura di tutti i fenomeni naturali allora conosciuti.

Che cos'è l''Arché'. L'arché è quel principio eterno dal quale le cose si generano e in cui si corrompono. Tenendo presente che ogni cosa si differenzia, si genera e si distrugge (il mondo è composto da molteplici e diverse sostanze che si creano e mutano, distruggendosi a vicenda), la filosofia greca delle origini già si domanda quale sia quel principio che determina la diversità delle cose pur rimanendo sempre identico a se stesso.

TALETE
(624-545 a.C. circa)

Per Talete, il quale gode degli onori di essere considerato il primo filosofo occidentale, questo arché è l'acqua. Tutto è composto d'acqua, le molteplici forme della materia (fuoco, terra, aria, e la stessa acqua, ad esempio) sono composte di acqua. Tuttavia quest'acqua non è da intendersi come il solo e semplice elemento che genera e compone il mare, i fiumi e la pioggia, l'acqua di Talete è un principio superiore ai semplici elementi sensibili: l'acqua di Talete è appunto il principio, l'arché, la forza sempre identica a se stessa che genera la molteplicità delle sostanze e lo stesso continuo mutare di tali sostanze (il divenire).

Probabilmente Talete ricava l'indicazione dell'acqua come arché dall'osservazione diretta della natura, dove tutto ciò che è vivo sembra abbisognare d'acqua per generarsi o semplicemente per continuare a vivere: il nutrimento dei viventi è umido, i semi che generano le piante sono umidi (come anche gli ovuli degli animali o il liquido amniotico dei mammiferi), l'acqua poi assume diversi stati, quello liquido, quello gassoso e quello solido. L'acqua è inoltre già presente nei miti come entità generatrice (ad esempio, Oceano dal quale tutto si genera, citato da Omero).

ANASSIMANDRO
(610-547 a.C. circa)

Anassimandro, forse discepolo di Talete, riflette sempre sulla medesima tematica, ovvero la ricerca dell'arché, ed amplia di molto l'orizzonte e la complessità della risposta: per Anassimandro l'archè è l'àpeiron (=ciò che non ha forma, l'indefinito, il non particolare).

Se Talete individua il principio che genera le diversità in qualcosa che comunque è definito (l'acqua di Talete è un per sempre una qualcosa di definito e preciso), Anassimandro replica affermando che il principio e la forza che genera il molteplice e le diversità tra le cose non può essere qualcosa di definito, ma in realtà è il 'tutto indefinito', il 'tutto molteplice', ovvero il 'brodo primordiale' in cui tutti gli elementi esistenti non hanno ancora trovato la loro forma: appunto, l'àpeiron.

Nell'àpeiron il Tutto esistente si trova in una situazione eterna, nell'àpeiron ogni cosa si trova nella condizione della coincidenza degli opposti: ovvero, Il Tutto racchiude in se anche le cose contrarie tra loro, come, ad esempio, il giorno e la notte. Mentre nel mondo sensibile il giorno, subentrando alla notte, dissolve e distrugge la notte stessa, e così, in un eterno gioco di distruzioni conseguenti, la notte subentrando al giorno dissolve il giorno, l'àpeiron è la dimensione eterna entro la quale tutti i contrari sono custoditi in attesa di essere richiamati nel mondo degli uomini, soggetti alla legge del tempo (solo dove c'è tempo c'è mutamento, e quindi diversità e molteplicità). Ecco come l'àpeiron è il principio di tutte le cose, secondo Anassimandro.

Da notare che per Anassimandro, l'àpeiron non genera le cose casualmente, egli parla infatti di governo dell'àpeiron, esso non è un qualcosa di cieco e insensibile, ma conoscente e vivo, intenzionale.

ANASSIMENE
(596-525 a.C. circa)

Tuttavia, Anassimandro lascia in sospeso (necessariamente) la domanda attorno alla vera natura dell'àpeiron: che cos'è che permette all'àpeiron di generare e mettere in moto le diversità del molteplice? Per Anassimene, amico di Anassimandro, ciò che permette all'àpeiron di mettere in moto la diversità è la 'condensazione e la rarefazione dell'aria'.

L'aria è quella sostanza infinita che costituisce tutte le cose. Le sostanze differiscono tra loro per il diverso grado di condensazione dell'aria: l'aria, attenuandosi, diventava fuoco, condensandosi, diventava vento, nuvola, acqua, terra e così via, verso una 'durezza' sempre maggiore.
Il mondo, secondo Anassimene, "è come un animale gigantesco che respira e il respiro è la sua vita e la sua anima." L'aria appare come elemento incorporeo, priva di materia, l'aria, per Anassimene, è 'il respiro del mondo', ciò che muove le cose senza essere nessuna cosa.

 


ERACLITO
(540-480 a.C. circa)

Eraclito visse ad Efeso, colonia ateniese sulle coste della Lidia, discendente di una famiglia di stirpe reale. Pare che conducesse vita appartata e che nutrisse un profondo disprezzo per le masse e per le istituzioni democratiche del tempo, disprezzo riassumibile nella sua frase "un uomo solo ne vale diecimila, ammesso che sia il migliore".

Questo suo carattere non facilitò certo la sua agiografia: di lui si racconta che scrivesse i suoi aforismi su sottili lamine d'oro che faceva conservare nelle casseforti del tempio, pensieri da rendere noti solamente dopo la sua morte. Sempre secondo la tradizione leggendaria, si diede egli stesso la morte all'età di sessant'anni nella piazza di Efeso facendosi divorare dai cani, non senza essersi prima cosparso di sterco.

Il pensiero di Eraclito ruota attorno a quattro punti fondamentali: il divenire, la contrapposizione tra i contrari, il Lògos, e il fuoco come stoichèion, come sostanza fisica identica nella diversità delle cose esistenti.

Il divenire. Il divenire è il continuo mutare di tutte le cose da uno stato all'altro. Tutta il cosmo è un continuo mutare, niente permane nella stessa forma. Lo stesso vivere è un continuo mutare da una condizione all'altra. Pànta Rhei, tutto scorre e tutto va, incessantemente, ed è questo continuo mutare che costituisce il senso stesso del cosmo, il suo principio fondamentale, il suo significato ultimo. Per dirla come Eraclito "non ci si bagna mai nello stesso fiume e non si può toccare due volte una sostanza sensibile nello stesso stato".

Il divenire, per Eraclito, costituisce il principio sul quale poggia il mondo, è l'arché. Ciò che vi è di identico e non muta, nell'ambito del mutare di tutte le cose, è lo stesso mutamento. Ogni cosa, infatti, si trova, ad un certo punto della sua esistenza, in una situazione per la quale essa è opposta a tutte le altre, ogni cosa è tutto quello che non è altro. Per essere qualcosa ogni cosa ha quindi bisogno del molteplice per ricavare la sua specificità dal confronto con le altre cose.

Il divenire, il mutamento, è nell'evidenza stessa del tempo: ogni cosa è soggetta alla temporalità, ogni aspetto del mondo muta perché e il tempo che necessita questo stesso mutamento: il tempo si esprime nel passaggio delle cose da uno stato all'altro, e questo passare (questo diventare altro), costituisce l'essenza stessa del cosmo (il cosmo è ciò che è perché in esso si assiste ai molteplici spettacoli del mutamento delle cose).

Ma ancora prima di interpretarla come riflessione sul tempo, la testimonianza di Eraclito produce un senso del divenire ben preciso: il divenire, il mutare delle cose, è determinato dalla stessa contrapposizione tra le cose, il mutare è connaturato (necessariamente legato) alla contrapporsi delle cose contrarie.

L'opposizione tra i contrari ('polemos'). Dunque, ogni cosa è ciò che è proprio perché ha delle altre cose che ne delimitano l'essenza (ad esempio sappiamo che è giorno perché conosciamo la notte: quindi definiamo il giorno come ciò che si oppone alla notte, se non ci fosse la notte, non potremmo sapere cosa è il giorno). Eraclito afferma che non esisterebbe luce senza buio, salute senza malattia, sazietà senza fame, ogni cosa raggiunge la sua definizione dal confronto con le altre.

Ogni cosa per esistere e per definirsi ha bisogno delle altre cose in modo da esprimere la propria identità rapportandosi alle altre. Questo concetto è definito da Eraclito come polemos ("contesa", "guerra", "opposizione"), o contrasto tra i contrari. Le cose esistono e continuamente subentrano alle altre (ad esempio il giorno subentra alla notte, il freddo al caldo, l'umido al secco), ed è proprio questa contesa a creare quell'equilibrio necessario a perpetuare l'esistenza di ogni cosa.

"La strada in salita e in discesa è una sola e la medesima". Con questa metafora Eraclito testimonia che il molteplice mutare delle cose divenienti (rappresentate dalla discesa e dalla salita) è pur sempre soggetto allo stesso principio (la strada, ovvero l'esistenza stessa): cose opposte e contrarie fra loro sono indissolubilmente legate le une alle altre (se non esistesse la salita, non esisterebbe nemmeno la discesa).
"Tutte le cose sono uno" come afferma lo stesso Eraclito, ovvero ogni cosa che si contrappone alle altre ha in comune con le altre un determinato aspetto: l'opposizione, la relazione necessaria con le altre cose dalla quale scaturisce necessariamente il loro significato.

Nella polemos si esprime un'armonia, una forma di giustizia universale: la contrapposizione permanente di ogni aspetto della realtà genera un equilibrio che non permette ad alcun elemento di prevaricare sugli altri (ciò sarebbe ingiustizia). Nessun elemento può quindi prevaricare sugli altri in quanto non può essere tolto dal suo contesto di relazioni senza perdere il suo stesso significato.

Il 'Logos'. La legge suprema che governa il mondo, ciò che esprime l'equilibrio tra i contrari permettendo l'armonia del cosmo, viene identificato con parola "logos". A questa parola possono essere attribuiti diversi significati: "discorso"", "ragione", "intelligenza", "legge", "pensiero", "logica", "regola fondamentale del tutto", tutti significati accomunabili nel senso di ragione che rispecchia il funzionamento del cosmo in tutti i suoi aspetti.

Il logos rispecchia e rende evidente la struttura di tutte quelle opposizioni tra le cose che rendono possibile il divenire e la vita stessa dell'universo, il logos è la stessa struttura, la legge che esprime la totalità delle relazioni.
Tutte le cose del cosmo, come visto, sono accomunate dall'opposizione, ovvero dalla relazioni necessarie che si instaurano tra loro, il logos rappresenta l'insieme stabile di queste relazioni, la loro stessa mappa.

Il rapporto degli uomini con il logos esprime il rapporto con la verità. "La legge e l'ordine del Tutto sono una sempiterna 'Parola' (logos) che si offre all'ascolto di tutti. I più la sentono, ma non sanno ascoltarla. Ogni giorno vi si imbattono e tuttavia non la intendono. Vivono quindi con in sogno, separati come sono da ciò che è 'comune', ossia dalla divina legge del Tutto". (E. Severino, La filosofia antica).
Eraclito divide gli uomini in dormienti e svegli (questi ultimi sono i sapienti, i filosofi, i secondi la gente comune). La legge espressa dal logos, ovvero la comprensione delle vere relazioni che si instaurano tra le cose, è alla portata di tutti, ma tutti gli uomini non sono uguali, alcuni intendono questa legge meglio di altri in virtù delle rispettive capacità intellettive. Chi più sarà in grado di rivolgersi alla comprensione del logos più avvicinerà la verità e la sapienza autentica. Per Eraclito non è sapiente colui che sa un gran numero di cose, bensì colui che sa cogliere meglio di altri la natura delle relazioni che si instaurano tra le cose.

Il fuoco come 'stoichèion'. Se il principio unitario che accomuna tutte le cose del mondo è il divenire, per Eraclito l'elemento fisico del quale tutti gli altri elementi sono composti (lo stoichèion), è il fuoco. Questo perché il fuoco è visto come elemento destabilizzante, in grado di provocare quel cambiamento che permette alle cose di mutare da uno stato all'altro.

Secondo Eraclito, dal fuoco si sprigionano dei gas, i gas diventano acqua, l'acqua stessa, una volta evaporata, lascia dei residui che vanno a comporre tutti i solidi. Questa idea del fuoco come elemento distruttore e creatore, sarà ripreso più tardi dagli stoici (assieme al concetto di lògos).

 


PITAGORA
(570-500 a.C. circa)

Pitagora nacque sull'isola di Samo attorno al 570 a.C. Da giovane viaggiò nel vicino oriente (forse si spinse fino in India) stabilendosi poi a Crotone, per sfuggire alla dittatura ateniese di Policrate. Nella città siciliana fondò una scuola di matematica che ben presto assunse i tratti esoterici della setta: la dottrina era trasmessa in segreto agli iniziati e tramandata a voce, solo gli appartenenti alla setta potevano conoscerne i precetti.

Pitagora stesso, più che a un filosofo, si atteggiava a despota bizzoso: gli allievi che volevano accedere alla sua scuola dovevano seguire alcune rigide regole non sempre fondate sulla logica, tra le quali il divieto di mangiare fave e di toccare galli bianchi.

La setta pitagorica riuscì in seguito a dominare numerose colonie trasformandosi in movimento politico-religioso ma la sua connotazione fortemente dispotica e aristocratica provocò una rivolta delle popolazioni che portarono alla distruzione della scuola e alla fuga di Pitagora a Metaponto, dove morì (ma si narra anche che sia morto in seguito al rifiuto di attraversare un campo di fave che gli precluse la ritirata).

La matematica di Pitagora pare non fosse identica a quella odierna: più che alla pratica, essa si rivolgeva alla teoria e alla ricerca dell'armonia nascosta delle cose (numerologia esoterica).

Il numero, la numerologia. L'arché, per Pitagora, era il numero. Il numero non era un concetto astratto come lo intendiamo oggi (un simbolo che si riferisce alla quantificazione delle cose), il numero possedeva una propria dimensione geometrica (per cui esistevano numeri triangolari, quadrati, rettangolari, cubici).

In Particolare, Pitagora sosteneva che tutte le cose sono oggetti geometrici e, come tali, sono composti da numeri, i quali ne costituiscono la struttura. I numeri erano comunque entità materiali (dotati di estensione), simili agli atomi formulati più tardi da Democrito.

I numeri dispari erano maschili e perfetti, benevoli, i numeri pari femminili e imperfetti, doppi. Il numero 1 era oggetto di una vera e propria venerazione, in quanto esprimeva l'unità originaria di cui tutti gli altri numeri erano composti (e quindi tutte le cose). Il numero 1 esprimeva quindi l'originaria unità del tutto, mentre il due già dimostrava, alla stregua del concetto di contrasto tra gli opposti, l'opposizione doppia degli elementi contrari.

Alcuni numeri avevano un significato magico: la duplicità era simbolo di doppiezza e inaffidabilità. Il 2, il primo numero pari, esprimeva per Pitagora la contrapposizione al vero sapere, ovvero l'1, l'unico.

La triplicità esprimeva sin dall'antichità il divino. Esso non è solo un simbolo riscontrabile nella Trinità cristiana, ma anche nella Trimurti orientale.

Il 4 esprimeva la quadruplicità della natura: quattro erano le stagioni.

Il 7 godeva invece della stima del numero perfetto.

L'armonia celeste. Anche la musica, come del resto tutta la realtà, era una combinazione di numeri. Pitagora basava la sua tesi sull'osservazione di alcune stringhe di uguale spessore e tensione ma di diversa lunghezza che faceva vibrare.
La musica era un rapporto numerico misurato secondo intervalli, le note dipendevano dalla quantità di vibrazioni emesse. Da questa intuizione affermò che le sfere celesti (Pitagora sosteneva la sfericità dei pianeti), a causa del loro movimento, emettevano una musica continua, un'armonia celestiale, che l'orecchio non sentiva perché ne era ormai assuefatto.

La metempsicosi. Forse conseguenza dei suoi viaggi in oriente, Pitagora sosteneva la trasmigrazione delle anime. L'anima era immortale ed era condannata da una colpa originaria a trasferirsi da una sostanza corporea all'altra (compresi gli animali) finché non si fosse purificata. Le regole per interrompere il ciclo di reincarnazioni erano quelle esclusivamente matematiche dell'armonia e della proporzione.

Per Pitagora la Terra "era una sfera, girava su se stessa da est a ovest ed era divisa in cinque zone: artica, antartica, estiva, invernale ed equatoriale e con gli altri pianeti formava il cosmo".

 

 


PARMENIDE
(515-450 circa a.C.)

Parmenide nacque da famiglia aristocratica ad Elea, oggi Velia, nei pressi di Capo Palinuro. Qui fondò la sua scuola, detta eleatica, e scrisse le leggi della città. Secondo la tradizione visse negli ultimi anni ad Atene assieme al suo discepolo prediletto, Zenone. Ad Atene entrambi conobbero Socrate, si dice che le lezioni del maestro fossero seguite con attenzione da Pericle (notizia riferita da Plutarco).

La negazione del divenire: la ragione, non l'occhio, vede il vero

"Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero / né l'abitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti forzi / a muover l'occhio che non vede, l'orecchio che rimbomba e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto discussa / che da me ti è stata fornita. / Resta solo da pronunciarsi sulla via / che dice ciò che è." (Parmenide, Sulla Natura).

Parmenide fu il primo a sostenere la superiorità della interpretazione razionale della realtà a scapito dell'interpretazione soggettiva dei sensi, i quali falsano il mondo oggettivo. In particolare, entrò in polemica con il pensiero di Eraclito e il divenire. Parmenide ci impone di giudicare secondo ragione: la ragione, e non l'occhio (ovvero i sensi) vedono il vero.

Sostenendo il continuo mutare delle cose da un stato all'altro, ovvero da uno stato di essere a uno stato di non-essere più, Eraclito entrava in una contraddizione logica, in quanto se l'essere è, il non-essere non è. La realtà eraclitea era falsa in quanto si lasciava ingannare dai sensi, l'unica entità esistente è l'essere, aldilà di ogni percezione soggettiva.

Mentre l'opposizione di Eraclito fa riferimento agli enti sensibili, Parmenide giunge da subito a contrapporre l'essere assoluto al non-essere assoluto: è chiaro che il nulla assoluto non esiste affatto, essendo, per l'appunto, nulla. Ecco che dalla contrapposizione suprema scaturisce la verità incontrovertibile dell'esistenza del Tutto: tutto esiste ed impossibilitato a non esistere, in quanto, nell'eventualità suprema di un supremo annullamento, questo nulla è una possibilità inesistente per sua stessa definizione.

In sostanza, il divenire eracliteo comportava il passaggio dell'essere da uno stato di essere a uno stato di non essere più: ciò è impossibile, ontologicamente, in quanto il non essere, non esiste. Nulla può mutare da uno stato all'altro se alle loro spalle non ci fosse qualcosa di indubbiamente esistente.

Le qualità dell'essere

1. L'essere è, in non-essere non è, ovvero l'essere non può non essere, in quanto il non essere non è e non sarà mai.

2. L'essere è eterno, in quanto non nasce, non è generato (infatti vorrebbe dire che prima non-era) e non muore (vorrebbe dire che non-sarebbe più). Non ci sono posizioni intermedie tra essere e non-essere, in quanto l'esistenza di ciò che non-è non è possibile per sua stessa natura.

3. L'essere è indivisibile e perfetto. Nessun elemento lo può integrare in quanto è già integro, visto che comprende tutto ciò che è.

4. L'essere è sempre identico a se stesso in quanto è tutto e non può divenire ne mutare in qualcos'altro che noi sia l'essere stesso (non esiste il molteplice, ovvero la diversità).

5. Tutte le parole che indicano una condizione di non-essere sono false. Il silenzio (il non-essere suono), il buio (il non-essere luce) sono parole inammissibili secondo logica: non possiamo vedere il buio e non possiamo sentire il silenzio.

L'essere può venire rappresentato da uno Sfero: la figura geometrica perfetta in quanto il centro è sempre alla stessa distanza rispetto alla circonferenza e in cui i lati che la compongono sono infiniti.

La negazione del molteplice: il mondo sensibile è 'doxa'

Il molteplice, al quale il divenire si riferisce, è l'insieme delle cose tra loro differenti. Ma se l'essere è sempre identico a se stesso (vedi punto 4 delle qualità dell'essere), come può esistere, nella sua forma di essere assoluto, qualcosa che è diverso?

Parmenide afferma che il molteplice non esiste. In realtà il molteplice, la diversità che si riscontra nella natura, non è la verità dell'essere stesso. Il mondo sensibile, nel quale l'uomo si muove e percepisce il divenire come reale, in realtà non può essere l'essere stesso, che non muta mai. Il mondo sensibile è allora doxa (opinione), mentre la verità (aletheia) è soltanto l'essere, del quale la realtà è una determinazione, ovvero un modo in cui l'essere si manifesta.

Il molteplice, ovvero la diversità e la diversificazione delle cose del mondo, è solo un'apparenza, l'essere, immutabile ed eterno, è in realtà la sola cosa ad esistere. Questo comporta che concetti come buio (non-luce) e silenzio (non-suono) siano considerati da Parmenide concetti impossibili da esprimere, assurdità: nessuno può dire di vedere il buio o sentire il silenzio... (vedi punto 5 delle qualità dell'essere).

"Il divenire dell'essere, che sembra incessantemente attestato dalle trasformazioni del cosmo, è quindi un'opinione senza verità, un'apparenza illusoria di cui si convincono i "mortali" allorché invece di prestare ascolto alla Verità, seguono il percorso della non-Verità, ove ci si persuade che l'essere possa non essere". (Severino, la Filosofia antica).

Parmenide riconduce tutto all'affermazione dell'esistenza dell'essere come unica possibilità percorribile, secondo logica. Se il nulla non esiste, allora tutto è impossibilitato a non essere. Di più, avverte gli uomini che la via che percorrono, quella di accettare e ipotizzare che l'essere non sia, ovvero che tutto possa mutare e divenire, è sbagliata: gli uomini non vivono nella verità perché se la nascondono, e in questo accettano di essere mortali (perché credono di diventare nulla con la morte). Gli uomini giudicano tutto secondo i sensi, ma con essi si arriva soltanto all'opinione, non alla verità.

L'essere non è il singolo oggetto reale. Se ciò fosse vero, allora il singolo oggetto sarebbe il Tutto stesso, perché l'essere è uno solo. Il singolo oggetto non è l'essere. E siccome l'essere è solo uno (vedi punto 3 delle qualità dell'essere), non esiste molteplice, ovvero la realtà molteplice che gli uomini naturalmente accettano, in realtà non costituisce verità.

Ciò che Parmenide ci vuole dire

Ciò che Parmenide ci vuole dire è che, se davvero vogliamo camminare entro il percorso della verità, dobbiamo affidarci solamente alla ragione e alla logica razionale, tutto ciò che appare è falso. Se vi è contrasto tra mondo sensibile e ragione, la verità è da ricercare nelle conclusioni di quest'ultima.

La filosofia di Parmenide è una sfida radicale al senso comune: essa arriva per vie razionali a contraddire ciò che sembra più evidente e naturale, ovvero che esistano più entità che nascono (si creano dal nulla) e si distruggono (che ritornano nel nulla). Parmenide afferma che nulla può generarsi dal nulla, né tanto meno ridiventare nulla... semplicemente il nulla non esiste.

Platone considerava Parmenide "maestro venerando e terribile", il padre spirituale della filosofia: il suo insegnamento era infatti quello di attenersi alla pura ragione, e questa è da sempre l'essenza ultima di tutta la filosofia occidentale. Ecco perché esprimendo il proprio dissenso verso la tesi del maestro, Platone considererà la propria critica come un parricidio.

Zenone di Elea, il fido scudiero

ZENONE
di Elea
(540-? a.C. circa)

Zenone, nato anch'egli ad Elea e allievo prediletto di Parmenide, fece della difesa delle tesi del maestro il punto centrale del suo lavoro, fino a spingersi al paradosso. Anche Zenone intende dimostrare l'impossibilità del molteplice, contro l'apparenza comune. Con Zenone, prima ancora che nei sofisti, nasce l'argomentazione logica non solo come metodo di indagine, ma soprattutto, come strumento di polemica.

I paradossi zenoniani prendono il nome di logoi (ragionamenti): essi furono una spinta formidabile alla sviluppo della logica e a teorie alternative che giustificassero il divenire pur mantenendo fermo l'essere immutabile ed eterno. Per superare l'aporia della divisibilità infinita, Democrito formulò la sua teoria degli atomi, ma si cimentarono nella sua confutazione anche Aristotele e Platone.

Tutti i paradossi di Zenone, come già detto, vogliono dimostrare l'impossibilità del molteplice e del divenire: ciò che appare non ha alcuna importanza, perché la verità è comunque quella alla quale si arriva logicamente per mezzo della ragione e delle sue regole.

Alcuni esempi di argomenti (logoi) zenoniani, ogni argomento dimostra razionalmente come la realtà contraddica la ragione:

Il moto non esiste (Achille e la tartaruga). Uno degli aspetti della realtà che giustificano maggiormente l'esistenza del divenire è l'esistenza dell'estensione della materia nello spazio e nel tempo, ovvero il suo occupare diversi spazi in tempi diversi.

Celebre è il paradosso di Achille e della tartaruga. Zenone dimostrò come fosse possibile per Achille raggiungere la tartaruga partita prima di lui.

Per Zenone il moto si spiega come il passaggio da un punto di partenza a un punto di arrivo. Ma per arrivare al punto di arrivo occorre arrivare prima alla metà di questo percorso, e per arrivare alla metà di questo percorso, occorre arrivare alla metà del percorso che va dall'inizio al punto intermedio, e così via: in sostanza, un uomo, per raggiungere una posizione nello spazio, deve sempre prima percorrere i segmenti intermedi, e questi segmenti, essendo lo spazio divisibile all'infinito, sono infiniti... ora, come può Achille raggiungere la tartaruga se è alle prese con la divisione infinita degli spazi che la separano da essa?

La divisione infinita dello spazio comporta che Achille in realtà non si muova mai, ma resti sempre fermo, nell'impossibilità di uscire dall'infinita serie di segmenti divisibili. Inoltre, il movimento è una serie sequenziale di istantanee ferme (di posizioni immobili che si succedono una dopo l'altra), come possono prendere movimento tali posizioni immobili, se sono immobili? Come può scaturire il movimento dal non-movimento? (si veda anche la concezione del tempo di Severino).

Il paradosso del chicco di grano. I paradossi zenoniani insistono spesso sul rapporto finito-infinito, parte-intero. Come può, ad esempio, qualcosa che preso da solo ha un significato, moltiplicato ne ha un altro?

Un chicco di grano, cadendo, non produce alcun rumore. Un sacco di grano invece si. Come può una somma di silenzi dare origine a un rumore?

La divisione del molteplice. Come è possibile allora che le cose molteplici possano costituire un intero? Se le cose sono molteplici (ovvero divise) devono per forza essere separate da altre cose intermedie, ma che cosa stabilisce il numero di questi intermedi, essendo il molteplice, per sua stessa natura, indefinito?

Dunque Zenone insegna con esempi pratici ciò che il maestro aveva teorizzato; le aporie che sorgono dai suoi logoi sono tali perché, per Zenone e per Parmenide, in realtà non vi è alcun rapporto tra verità (raggiunta per mezzo della ragione) e mondo sensibile (opinione, non-verità), mentre per gli uomini che non seguono la strada della verità, si apre la lotta per far coincidere l'apparenza sensibile alle conclusioni contrarie suggerite dalla ragione.

 

 


I PLURALISTI

I filosofi che la tradizione definisce pluralisti, e cioè Empedocle, Anassagora e Democrito, tentano di conciliare le posizioni contrapposte sostenute da Eraclito e da Parmenide, ovvero il divenire da una parte, e l'essere immutabile dall'altro. Essi cercarono di spiegare come la verità del mutamento indiscutibile delle cose sensibili (e quindi l'affermazione del molteplice) può comunque sempre esprimersi a partire da una originaria unità (l'unità dell'essere).

I pluralisti prendono il nome dall'uso di attribuire la diversità delle cose sensibili a una pluralità di elementi diversi, sempre ricondotti però, come vedremo, a una unità originaria.

Il motto dei pluralisti era nulla si crea e tutto si trasforma: la materia che forma tutte le cose è da sempre presente nell'universo ed è indistruttibile e non può essere generata e nemmeno distrutta (rimanda, quindi, all'essere parmendieo), l'universo è un sistema chiuso, ovvero tutto ciò che l'universo contiene rimane costante, non cresce e non decresce in quantità. Tale materia però cambia aspetto, e quindi muta, perché i suoi elementi semplici e originari si uniscono e si disgregano ogni volta in combinazioni diverse (pensiero che rimanda al divenire eracliteo).

Tutto si trasforma, quindi, ma l'oggetto (o gli oggetti) protagonisti di tale trasformazione sono i medesimi. Da notare che i fisici pluralisti teorizzarono per la prima volta quel modo di concepire la meccanica della materia oggi accettata dalla fisica moderna, ovvero una serie di elementi base che, combinati, formano tutte le altre sostanze (mentre la permanenza dell'essere è testimoniata dalla legge di conservazione dell'energia).

EMPEDOCLE
(492-432 a.C.)

Empedocle nacque ad Agrigento. La sua vita è leggendaria: si dice sia morto cadendo nell'Etna mentre vi si recava per certi suoi studi e che fosse in grado di resuscitare i morti. Di certo è che era il figlio di Metone, un aristocratico a capo del partito democratico, al quale anch'egli aderì nel corso della sua vita.

Per Empedocle, l'uomo è limitato nella sua conoscenza, si accorge solo di ciò che può percepire con i sensi. Per capire di più, oltre ai sensi, dovrà usare l'intelletto.

Le radici. L'essere è eterno, ovvero non può crearsi né distruggersi (similmente all'essere parmenideo). L'apparenza della nascita e della morte va spiegata con l'unione e la separazione delle radici che compongono una cosa. Le radici (più tardi chiamate da Platone elementi) sono il fuoco (Zeus), l'aria (Era), l'acqua (Nesti) e la terra (Edoneo).

La forza che unisce le radici è chiamata Amore; quella che le divide, Odio o Contesa. Le due forze cosmiche, Odio e Amore, dividono e uniscono senza sosta, eternamente, le radici, e quindi la materia (che è in divenire, muta). Empedocle concilia così le due verità opposte proposte da Eraclito e Parmenide.

Al principio L'Amore univa tutto in uno Sfero (ritorna Parmenide): non esisteva il mondo perché tutto era identico e indistinto (per usare le parole di Empedocle, "[lo sfero] era una divinità che gode della propria completa solitudine"). In seguito L'Odio divise lo Sfero e creò il mondo (e le radici) per come lo conosciamo. Il mondo è quindi un insieme di Amore e Odio, né uno né l'altro, ma entrambi "miscelati" e compenetrati (senza l'intervento dell'Odio nulla si sarebbe mosso...).

Dunque l'Amore e la Contesa muovono e rimescolano incessantemente ogni cosa, ma non ci è dato sapere quale è la ragione di tale rimescolamento.

ANASSAGORA
(500-427 a.C.)

Nato a Clazomene, nella Ionia, attorno al 500 a.C. Nel 460 introduce per primo la filosofia ad Atene, dove fu maestro di Pericle. Nel 432, in seguito all'affermazione che il Sole e la Luna non sono divinità, ma fuoco e pietra, fu accusato di empietà, processato ed esiliato a Lampsaco, sull'Ellesponto.

I semi (o omeomerie). Anche Anassagora ritiene che ciò che vi è presente nel cosmo permanga in quantità costante, ma, diversamente da Empedocle, non crede che l'origine di tutti gli elementi sia da ricercare in soli quattro elementi originari, ma in una molteplicità infinita di particelle di ogni elemento presente nel cosmo.

In sostanza, Anassagora ritiene che tutti gli elementi del cosmo siano presenti in semi (spèrmanta) di numero infinito. Esistono i semi della carne, della roccia, della terra, del fuoco, e di tutte le sostanze, il fatto che una sostanza sia ciò che è, è dovuto alla presenza maggioritaria del seme di quella sostanza rispetto agli altri (la roccia è roccia perché in essa vi sono presenti in modo maggioritario i semi della roccia). Questo significa che in ogni cosa del cosmo sono presenti tutti i semi di tutte le cose, ma la specificità che la rende una cosa precisa è dovuta alla maggioranza del numero di semi di quella cosa precisa (nella roccia sono presenti anche i semi dell'acqua, ad esempio, ma la roccia è ciò che è perché in essa sono maggiori i semi della roccia).

I semi saranno chiamati più tardi da Aristotele omeomerie (parti simili). I semi non hanno un numero definito, sono presenti nel cosmo in numero infinito, in quanto non sono entità indivisibili, ma divisibili all'infinito.

Il 'Nous'. Ma qual è la forza che permette ai semi di aggregarsi nelle cose in parti diverse e dare così origine alla diversità delle cose? Mentre per Empedocle tale forza erano l'Amore e la Contesa, Anassagora chiama questa forza nous, ovvero Mente, Intelletto. Il nous è l'anima che muove ogni cosa e permette ai semi di aggregarsi nelle cose in parti diverse secondo un ordine voluto e non casuale, voluto dal nous, appunto.

Un'immagine atomizzata di Democrito

DEMOCRITO
(460-360 a.C. circa)

Democrito nacque ad Abdera, in Tracia. Sviluppò la sua teoria da Leucippo, suo maestro.

L'atomo, ovvero l'indivisibile. Per ribattere le argomentazioni di Zenone sull'infinita divisibilità dello spazio, Democrito propose la teoria degli atomi: La materia non è divisibile all'infinito, ma si può dividere in particelle piccolissime e invisibili fino alle dimensioni di un atomo (in greco, àtomoi, senza divisione) e non oltre. L'atomo è dunque quell'entità minima della materia le cui diverse combinazioni danno origine a tutte le sostanze del cosmo.

L'atomo implica l'esistenza del vuoto entro il quale le particelle si muovono, e questo è in aperto contrasto con il concetto di non-essere parmenideo. Gli atomi si muovono in alto e in basso, si urtano e rimbalzano nel vuoto, intrecciandosi a formare nuove sostanze. Democrito intende l'essere come pienezza dello spazio esteso, come riempimento dello spazio, e il non-essere come vuoto, con estensione non occupata dello spazio. Democrito afferma così che la verità è l'atomo e il vuoto, tutto il resto è opinione. Ente e niente (atomo e vuoto) sono la sola cosa che esiste, le percezioni, le sensazioni di caldo e freddo, dolce e amaro, luce e buio, non sono la verità ma solo l'apparenza sostenuta da una realtà di atomi e di vuoto.

Il vuoto esiste in quanto se lo spazio fosse pieno in tutta la sua estensione i corpi non si potrebbero muovere, rimanendo come imprigionati nella densità del pieno, così come le cose non potrebbero essere divisibili in parti, perché per dividere occorre avere lo spazio vuoto necessario ad occupare il posto occorrente per il taglio (tagliando un albero occorre avere attorno abbastanza vuoto per permettere all'ascia di entrare nel legno).

Gli atomi sono infiniti, un vortice cosmico seleziona gli atomi secondo la loro grandezza e genera i quattro elementi: fuoco, acqua, aria e terra. Le sostanze sono combinazioni di atomi, i quali sono indivisibili e inalterabili per la loro solidità (i seguaci di Epicuro li ritenevano incorruttibili per la loro durezza, quelli di Leucippo per la loro piccolezza).

I mondi sono infiniti, generati e corruttibili, combinazioni infinite di atomi. Il Sole e la Luna sono composti di atomi, l'universo stesso e tutte le cose rispondono a questa regola.

Il materialismo democriteo. Se tutto è composto di atomi e di vuoto, anche l'anima è composta da atomi, quindi è materiale, come gli dei, e come le sensazione e le emozioni. Mentre le qualità materiali sono però facilmente quantificabili in numero, le qualità delle cose spirituali, seppur materiali, possono solamente essere giudicate secondo qualità. Quindi l'essere, secondo Democrito, può essere concepito solo in senso materialista, ovvero solo come occupazione e riempimento continuo dello spazio.

Il vortice atomico. Prima della divisione degli elementi l'universo si presentava come un'unica mescolanza che aveva un solo aspetto. In seguito, gli atomi più leggeri andarono verso l'alto (gli atomi dell'aria e del fuoco), gli atomi più pesanti (della terra e dell'acqua) rimasero in basso. Da questo movimento si generò un vortice che è la causa permanente dell'aggregazione di certi atomi a scapito di altri.

La genesi della vita è la conseguenza dell'azione primitiva del vortice atomico: il caldo del fuoco solare scaldò l'aria e cominciò a fare fermentare le paludi umide. Le paludi (analogamente alla teoria moderna del brodo primordiale) cominciarono così a dar vita a tutte le forme animali.
Gli animali che ebbero in dote la maggioranza di atomi dell'aria divennero volatili, quelli con maggioranza di atomi di terra divennero terricoli, quelli con maggioranza di atomi d'acqua, pesci ed anfibi. Il calore e il vento, col tempo, scaldarono la terra a tal punto che diventò dura, così da non poter più generare alcun animale, animali che popolarono la terra per successiva unione tra le speci.

Si può notare come il vortice atomico si sia generato per mere cause meccaniche: secondo Democrito non vi è Amore o Contesa e nemmeno Nous, il vortice atomico che mette in moto il mutare delle cose si è generato in modo indipendente e autonomo, senza che vi sia stato un atto intenzionale di una qualche forza o di una qualche entità.

 

 


I SOFISTI

Sofisti, ovvero sapienti, vennero chiamati quei filosofi del V° e IV° secolo a.C. che cominciarono a dare lezioni di filosofia a pagamento, facendo della filosofia una professione. Con i sofisti la filosofia greca si apre definitivamente al grande pubblico, precedentemente era stata disciplina più che altro elitaria, chiusa ed esoterica, destinata in prevalenza dai maestri ai soli allievi.

Fu così che per questa caratteristica non più disinteressata ma legata all'esercizio di una professione (e quindi esercitata sotto pagamento), sofista divenne termine spregiativo per indicare, oltre gli argomenti cavillosi e speciosi, anche un atteggiamento mercenario del sapiente stesso, il quale era spesso pagato per dimostrare razionalmente la tesi del committente, in spregio a qualsiasi idea di verità. "Il 'sofista' è appunto colui nel quale la sophìa, rinunciando a essere verità, è divenuta la capacità tecnica di persuadere conformemente a dei fini." (E. Severino, La filosofia antica).

Sebbene non fosse riconducibile ad una scuola precisa ma solamente a un atteggiamento generale, la sofistica si può distinguere per i seguenti punti:

1. Il relativismo, per cui la conoscenza si riduce all'opinione e il bene all'utilità. La verità e i valori morali non sono più certezze, ma si ammette che verità e valori possano mutare a seconda dei luoghi e dei tempi;

2. Il concentrarsi maggiormente sui problemi dell'uomo, e un minore interesse per le questioni teoretiche legate alla ricerca del principio e della giustificazione del mondo;

Questi primi due punti sono riconducibili in special modo a Protagora e Gorgia, mentre per la seconda fase del sofismo si possono distinguere altri due punti centrali:

3. L'eristica, ovvero l'abilità di sostenere e confutare contemporaneamente argomenti tra loro contraddittori;

4. La contrapposizione tra la natura e la legge, e il riconoscimento che in natura vige la legge del più forte;

Dunque, centrale è il tema del relativismo, ovvero la consapevolezza che la realtà è filtrata e interpretata da ogni uomo in modo diverso. Nel sofismo l'argomento polemico dell'impossibilità della verità deriva dalla constatazione che ogni conoscenza è frutto di una contrapposizione tra tesi contrarie, e che tali tesi, ognuna sostenuta dalle diverse scuole di pensiero, impongono le proprie conclusioni sulle altre (come verità). Tali dissidi insanabili portano i sofisti a dichiarare l'impossibilità da parte della conoscenza umana di raggiungere la certezza e la verità universale (la verità è l'opinione).

Col tempo tale atteggiamento divenne quasi una forma di estetismo della ragione, per cui la logica non era più al servizio della verità ma al servizio della confutazione e della dimostrazioni di tesi ad hoc, attraverso l'uso della retorica come strumento tecnico codificato. Molti sofisti, infatti, soprattutto nella seconda fase del movimento, organizzavano regolarmente vere e proprie esibizioni pubbliche in cui davano sfoggio delle loro abilità retorica: lo spettacolo preferito erano le antinomie, ovvero la contemporanea dimostrazione di una tesi e del suo contrario (vedi eristica, punto 3).

PROTAGORA
(491-? a.C.)

Protagora nacque ad Abdera ma conobbe la sua fortuna ad Atene, dove Pericle, suo estimatore, gli diede l'incarico di scrivere le leggi della colonia di Turi. Purtroppo il suo periodo aureo si interruppe ben presto, quando affermò che non poteva ammettere, secondo logica, l'esistenza degli dei, cosa che gli valse l'esilio in Sicilia. Morì naufragando durante la fuga.

L'opera principale di Protagora si intitola Antilogie, ovvero "discorsi antitetici", dove ad ogni argomento corrisponde il suo contrario, in modo da dimostrare come la verità sia impossibile da raggiungere proprio nell'ambito della ragione stessa (la ragione ha in sé l'errore, per cui è impossibile dimostrare qualsiasi verità razionalmente).

L'uomo è misura di tutte le cose. Non esiste altro criterio per stabilire la verità se non l'esperienza stessa che si pone di fronte in modo diverso a uomini diversi. Solo ciò che i sensi percepiscono è reale, ciò che non percepiscono non esiste. L'uomo è misura di tutte le cose, ovvero, ciò che viene percepito dall'uomo è il solo criterio per giudicare la realtà (e la verità).

Da ciò deriva che non esiste una sola verità, perché lo stesso fenomeno percepito in un certo modo da un uomo, può essere percepito diversamente da un altro, in tal caso entrambi i giudizi costituiscono verità (ad esempio, se un uomo percepisce l'acqua di un fiume come calda, mentre allo stesso tempo e nello stesso luogo un altro uomo la percepisce fredda, entrambi gli uomini hanno ragione).

Il compito del filosofo. Se ogni uomo raggiunge la verità con i propri mezzi (seguendo le proprie percezioni), compito del filosofo non è più la ricerca della verità assoluta, che non esiste, ma quella di aiutare le persone a migliorare l'esposizione delle proprie idee e i propri giudizi, così da predisporli verso un sapere più ampio. Compito del filosofo è quindi quello di elevare l'uomo a livelli di civiltà superiori, non tanto perché costituisca verità nei confronti di civiltà inferiori, ma in quanto l'elevarsi a civiltà superiore conviene in senso utilitarista.

GORGIA
(485-377 a.C. circa)

Gorgia nacque a Lentini, in Sicilia. Si procurò fama di grande oratore, capace con la sua dialettica di rovesciare il senso comune e battere qualsiasi avversario. Questa grande capacità oratoria gli permise di accumulare una ingente fortuna economica, tra l'altro sperperata prima della sua morte, e di avere un grande seguito di allievi. Morì all'età venerabile di 108 anni a Larissa, in Tessaglia.

Gorgia era in grado di confutare qualsiasi tesi a richiesta, spesso nemmeno lui si curava troppo di credere in ciò che sosteneva, ma questo non era importante visto che, da buon sofista, predicava una verità diversa per ogni diversa situazione. Scopo della sua filosofia, non la ricerca del vero assoluto, ma la scelta delle parole più utili che gli garantissero di prevalere nello scontro dialettico.

Gorgia diede prova di grande perizia dialettica sul tema parmenideo dell'essere e del non-essere, dimostrando che:

1. Nulla esiste;
2. Se anche qualcosa esistesse, non potrebbe essere comprensibile all'uomo;
3. Se anche qualcosa fosse comprensibile, sarebbe incomunicabile.

1. Che nulla esiste è dimostrabile nel fatto che se esistesse qualcosa sarebbe o l'essere o il non-essere, oppure entrambi. Escludendo il non-essere, che non è, si passa all'analisi dell'essere. Esso sarebbe infinito o generato. Se fosse infinito allora non è in alcun luogo preciso e quindi non esiste. Se fosse generato allora lo sarebbe dal non-essere, e non potrebbe, o dall'essere. Ma l'essere lo è già e non può generare. Quindi nulla è.

2. La seconda tesi è dimostrabile in questo modo: se non possiamo dire che le cose pensate esistono, non potremmo neanche dire che si può pensare l'essere, e se l'essere non è pensabile allora non è nemmeno comprensibile.

3. La terza tesi è spiegabile tenendo presente che l'uomo comunica solo attraverso i sensi, più precisamente trasmette l'idea di un oggetto con la parola. Ma la parola non può trasmettere l'oggetto stesso, essendo la parola solamente un simbolo. Ciò che non è espresso non può essere realtà.

La difesa di Elena. Altro argomento che diede fama a Gorgia fu la difesa di Elena, ritenuta colpevole di aver scatenato la guerra di Troia.
Ne L'encomio di Elena, Gorgia sostiene che essa fu convinta a tradire il marito Menelao dalle affabulazioni verbali di Paride: ella non aveva quindi proprie colpe specifiche che ne danneggiassero la virtù.
In sostanza, Gorgia riconosceva alla parola il potere di ipnotizzare l'interlocutore fino a fargli perdere la ragione. La difesa di Elena può considerarsi, storicamente, un omaggio alla parola come edificatrice di verità, omaggio che non poteva non provenire da un sofista doc quale era Gorgia.

 

 


SOCRATE
(470-399 a.C.)

Socrate nacque ad Atene dallo scultore Sofronisco e dalla levatrice Fenarete.
Da giovane si distinse nella campagna di Potidea del 432, dove salvò Alcibiade durante una ritirata (non menzionò l'accaduto per il timore di privarlo di una medaglia) e fu per breve tempo membro della bulé (il senato della città).
Nel 399 venne accusato dai concittadini di empietà, ossia di non credere agli dei e di contribuire con il suo esempio a corrompere i giovani. Dopo il processo (testimoniato nell'Apologia di Platone) in cui Socrate tentò un'inutile difesa, morì bevendo un recipiente di cicuta e lasciando gli allievi nel più totale sconforto.

Socrate, nonostante la sua importanza storica, non ha lasciato nulla di scritto (egli stesso preferiva trasmettere direttamente a voce i suoi insegnamenti). Tutto quello che si sa di lui si deve al lavoro del suo principale allievo, Platone, che scrisse abbondantemente sulla figura del maestro e ne fece il protagonista di gran parte delle sue opere.

Socrate si definiva il tafano di Atene, per la sua inclinazione ad entrare nei discorsi dei passanti, apparentemente assennati, e smontarli con domande fastidiose e insistenti che inevitabilmente finivano per sbriciolare ogni certezza.

Da notare che Socrate contraddiceva l'ideale ellenico della mente saggia in un corpo armonioso (kalokagatia, ovvero l'idea greca che virtù morale e bellezza fisica andassero di pari passo): non era bello, il suo volto aveva tratti piuttosto grossolani, preferiva camminare scalzo, non si curava molto di come era vestito, beveva e non si può dire che fosse un bravo marito (sua moglie Santippe lo denunciò per negligenza dei suoi doveri coniugali e Socrate, invece di difendere se stesso, difese la consorte).



1. "So di non sapere"

Socrate afferma ripetutamente: "so di non sapere". Lungi dall'essere una testimonianza di umiltà, tale affermazione ha un significato ben preciso: Socrate afferma che intorno a lui non vi è nulla che possa attestare la verità, non le leggi, non gli usi sociali, non le religioni, non la morale e non le dottrine filosofiche. Se il sapere è l'annuncio di una verità incontrovertibile, si può notare come, seguendo l'esempio della critica già espressa su questo tema dai sofisti, il sapere degli uomini o è gratuito (un sapere che non conosce i suoi veri perché) o contraddittorio (un sapere che nega ciò che allo stesso tempo vuole affermare).

A differenza dei filosofi precedenti, Socrate nega che la verità autentica sia mai stata raggiunta (mentre per i sofisti era verità l'assenza di verità), ma è consapevole di saperlo. E' questo un modo per azzerare nuovamente il discorso filosofico e farlo ripartire dal progetto di concentrare la ricerca attorno alla verità autentica, dopo che l'onda scettica del sofismo aveva negato l'impossibilità di raggiungerla. Dunque sapere di non sapere, per Socrate, già costituisce una base certa dalla quale partire per edificare più solidamente l'edificio filosofico.

2. "Conosci te stesso" ("Gnothi sauton")

Sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi vi era scritto "Gnothi sauton" (conosci te stesso). Socrate fa suo questo motto. Cosa significa?

Come Protagora, Socrate ritiene che nessuna verità possa essere esteriore all'uomo, cercare la verità delle cose nella physis (nella natura, negli elementi materiali), non porta l'uomo alla vera conoscenza. Perché? Perché secondo Socrate la verità che davvero interessa all'uomo è quella attorno alla sua vita e al senso che ha all'interno del mondo.

Come già visto in Gorgia, la verità è incomunicabile (si veda il suo terzo argomento polemico). Mentre per Gorgia questo argomento era teso a dimostrare che, non essendo comunicabile, la verità non esisteva, Socrate afferma invece che tale verità, proprio perché non può essere comunicata, va ricercata all'interno dell'uomo: in ogni uomo vi è la verità, occorre solamente farla uscire allo scoperto.

3. La maieutica e l'ironia

Ma come far uscire allo scoperto quella verità che è all'interno di ogni uomo? Socrate si definisce un ostetrico di anime (maieutica=arte dell'ostetricia, il mestiere di sua madre), ossia il suo compito non è tanto quello di insegnare la verità (del resto egli sa di non sapere), ma piuttosto quello di aiutare l'interlocutore a partorire la verità con i propri mezzi.

Socrate si prefigura quindi non come portatore di verità in sé, ma come portatore di un metodo attraverso il quale favorire il raggiungimento di tale verità (se la verità è ciò che viene portato alla luce, l'immagine del parto della verità è certamente una delle più suggestive).

In cosa consiste tale metodo?

Uno stratagemma della maieutica socratica era l'ironia, ovvero egli fingeva di non sapere niente o di non capire nulla riguardo un certo argomento, per poi colpire improvvisamente con domande pungenti e più che mai sensate, ma che sembravano dettate dall'ingenuità, in modo da mettere l'interlocutore davanti ai suoi errori. Di fronte alla sicurezza derivante dall'opinione comune, Socrate opponeva il bisogno di analizzare razionalmente affermazioni affrettate e date per scontate.

Se, ad esempio, un generale affermava che il coraggio in battaglia consisteva nella resistenza indomita, Socrate notava che anche una ritirata si poteva dire coraggiosa se serviva a vincere e ad evitare inutili perdite.

Il metodo socratico si può riassumere sinteticamente nei seguenti punti:

1. Socrate individuava il problema, un'affermazione che gode del consenso derivante dal senso comune (definizione del problema);

2. A questo punto ci si deve domandare se l'affermazione, nonostante l'apparenza, si possa considerare falsa (possibilità di confutazione);

3. Se ciò accade, anche solo per un'eccezione, allora il significato dell'affermazione va corretto o arricchito (nuova formulazione).

Da questo procedimento, in cui la verità viene alla luce grazie al continuo sforzo della critica dialettica, si può evincere, nel pensiero socratico, la superiorità del pensiero razionale sull'intuizione semplice (la verità non è cosa naturale, istintiva, zen, bensì va raggiunta tramite la pratica consapevole della ragione).

4. L'universale e il particolare

La causa prima che impedisce all'uomo di sapere con certezza è l'incapacità di stabilire in modo definitivo il significato di ciò che si vuole sapere. Il mondo materiale, in quanto numeralizzabile, è facilmente quantificabile (ci si trova d'accordo sulla forma, il peso o le misure di un oggetto), la difficoltà si presenta quando bisogna quantificare in modo certo il significato di un concetto etico, morale o estetico (ad esempio cos'è il bene e cosa il male, il giusto e l'ingiusto, il bello e il brutto).

Per definire in modo certo cosa sia il bene e cosa sua la giustizia, ad esempio, occorre sempre prima domandarsi che cosa (ti esti=che cos'è) sia il bene e la giustizia: il procedimento per raggiungere la verità attorno ai concetti etici passa per la loro corretta definizione.

Per spiegare cos'è il bene, potremmo certamente fare un esempio di una azione nel quale si manifesti il bene, ma questa azione non sarà mai un bene assoluto, poiché se in una certa situazione e per una certa persona tale azione è un bene, in altri casi, in altre situazioni, per altri popoli secondo i loro diversi costumi, tale azione presa ad esempio potrebbe non essere un bene (per alcuni popoli, ad esempio, è un bene avere una sola moglie, per altri in cui la poligamia è regola, una sola moglie non riveste più un significato di bene).

Ciò significa che per definire che cos'è il bene, il bello, la giustizia, ecc. l'uomo non deve attenersi al concetto particolare del bene, del bello e della giustizia, ma al loro concetto universale. Solo l'uomo che saprà individuare il concetto assoluto del bene, del bello e della giustizia potrà arrivare al vero sapere, poiché tale concetto avrà quella validità universale indispensabile alla definizione della verità certa e incontrovertibile.

5. L'importanza del concetto

Una conseguenza importante del pensiero di Socrate è la ricerca dei significati universali dei concetti. Mentre i fisici presocratici (in particolare i Milesi e i Plualisti) cercavano la verità negli aspetti fisici e sensibili del mondo (ovvero gli aspetti particolari, materiali e contingenti delle cose), Socrate afferma che la verità autentica si trova nei concetti delle cose, ovvero nell'immagine universale delle cose contenuta nel pensiero.

La filosofia deve quindi iniziare a stabilire un sistema di concetti, ovvero stabilire un insieme organico di significati universali delle cose, poiché la verità non si trova negli aspetti accidentali, particolari e contingenti del mondo sensibile (non è infatti possibile, secondo gli argomenti già espressi da Protagora, trovare un accordo tra i diversi modi di percepire propri di ciascun uomo), ma si trova in una dimensione diversa: solo attorno al concetto espresso dalla mente umana (quindi dal pensiero), è possibile trovare un accordo attorno alla verità autentica.

6. Intellettualismo e volontarismo etico

Le verità universali attorno a concetti morali quali il bene e la giustizia implicano che l'uomo, una volta a conoscenza di tali verità, venga guidato da esse nel giusto agire nelle cose della vita, ma rimane sempre la possibilità che l'uomo, pur conoscendo il vero significato del bene e della giustizia, scelga comunque di agire seguendo il male e l'ingiustizia.

Il primo atteggiamento, ovvero quello che per cui una volta conosciuto il bene lo si pratica necessariamente, è noto come intellettualismo etico, il secondo atteggiamento, per cui anche a conoscenza del vero bene si sceglie di praticare comunque il male, è conosciuto col nome di volontarismo etico.

Ma come può la conoscenza del bene assoluto non agire negli animi dei malvagi? Socrate afferma che chi agisce commettendo il male pur conoscendo il bene, in realtà non conosce realmente il bene autentico, ma ne abbia una falsa conoscenza. La verità del bene assoluto, infatti, una volta conosciuta, è superiore in forza a qualsiasi considerazione. In particolare, chi agisce secondo il male, sarebbe sotto l'influsso negativo degli istinti, che impedirebbero al malvagio di avvicinarsi alla conoscenza del vero bene.

L'idea di Socrate è che qualora l'uomo venisse a conoscenza del vero significato del bene non commetterebbe più alcun male: se l'uomo fosse realmente a conoscenza del vero significato del bene avrebbe davanti a sé più chiaramente quali sarebbero le conseguenze delle azioni che sta per compiere, perché se l'uomo tende naturalmente al maggior piacere possibile, un'azione veramente giusta costituirebbe un piacere ben più stabile e duraturo rispetto a un piacere fuggevole e incerto.

7. Il 'Demone' socratico, 'la salvezza della vita'

Socrate sa di non sapere, ovvero non conosce la verità e quindi non conosce il bene, pur essendo alla sua ricerca. Cosa guida Socrate nel percorso della virtù se il bene che dovrebbe guidarlo nella vita non è stato ancora individuato?

Socrate afferma di essere guidato da un demone, non un diavolo (nell'accezione cristiana non ancora conosciuta), ma una voce divina che lo tratteneva dal compiere certe azioni (quelle ingiuste). Di fronte all'impossibilità di agire in mancanza della conoscenza del bene, l'uomo deve dunque affidarsi alla voce di quella verità che si trova già in lui, ma che se oscurata dall'eccessivo abbandonarsi all'istinto, non percepisce più come guida.

La filosofia socratica si configura dunque come una filosofia morale: si è già detto come per l'uomo le verità che più possono interessarlo siano quelle relative alla sua vita e al modo in cui decide di agire. Tale atteggiamento antropologico (ovvero centrato sui problemi dell'uomo e non sugli aspetti che riguardano il funzionamento della natura) può essere considerato il primo vero affacciarsi nella storia del pensiero dell'umanesimo (sui problemi dell'uomo era già in parte incentrata la sofistica, ma in essa l'umanesimo era stato stemperato nel relativismo radicale e nella negazione del raggiungimento di una qualsiasi verità etica).

Infine, ciò che può veramente far affermare che una vita sia stata virtuosa e spesa nel modo giusto, è per Socrate la disponibilità dell'uomo di avviare la ricerca sul vero significato del bene e del male: solo quando l'uomo verrà in possesso di tale conoscenza, avrà raggiunto quella verità che potrà dare agli uomini, secondo le parole dello stesso Socrate, la "salvezza della vita".

 

 

 


PLATONE
(428-347 a.C.)

Platone nasce ad Atene da famiglia aristocratica nel 428 a.C. Da giovane si appassiona alla politica desiderando di parteciparvi attivamente, desiderio che però viene meno col passare del tempo, soprattutto a causa del pessimo periodo storico che Atene stava attraversando: nel 404 la sconfitta nella guerra del Peloponneso, nel 403 la traumatica esperienza della dittatura aristocratica dei Trenta Tiranni e la sopraggiunta restaurazione democratica che condannò a morte Socrate, maestro di Platone.

L'uccisione dell'uomo più giusto di tutti, secondo le sue stesse parole, provocò in Platone l'abbandono definitivo di qualsiasi ambizione politica e il desiderio di fondare una nuova filosofia che potesse aiutare la società ateniese ad uscire dalla crisi. A questo scopo Platone fondò l'Accademia, una scuola filosofica che doveva forgiare la nuova classe dirigente nel rispetto della saggezza e della sapienza, unica possibilità di salvezza per l'uomo.

Platone fu il primo filosofo a lasciare un'abbondante testimonianza scritta del suo pensiero; egli fu il primo grande filosofo scrittore del pensiero occidentale. I libri di Platone sono dei dialoghi quasi teatrali, per mezzo del dialogo a due o più interlocutori egli poté trasmettere il suo pensiero rimanendo spesso nell'ambito della dialettica e della maieutica socratica (Socrate fu infatti il protagonista di molte delle sue opere, tanto da porre il dubbio se la maieutica socratica non sia opera dello stesso Platone).

I suoi dialoghi sono divisi convenzionalmente in nove tetralogie:

1. Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone.
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico.
3. Parmenide, Filebo, Convito, Fedro.
4. Alcibiade I, Alcibiade II, Ipparco, Amanti.
5. Teagete, Carmide, Lachete, Liside.
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone.
7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno.
8. Citofonte, Repubblica, Timeo, Crizia.
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere.



1. Verità e opinione: il mito della caverna

Il nucleo principale del pensiero di Platone è la cosiddetta teoria delle idee contenuto nella Repubblica. Quanto questa teoria sia in realtà strutturata a vera e propria dottrina è ancora oggetto di dibattito e discussione, il dato di fatto è comunque che vi è tutto un discorso, in Platone, che conduce a una determinata visione della realtà.

La filosofia di Platone nasce dall'esigenza di conciliare le conclusioni di Parmenide, il quale predicava la necessaria eternità e immutabilità di ogni cosa, con l'evidenza del divenire che si riscontra nella realtà sensibile, la realtà del mutamento che si riscontra nel quotidiano.

Platone inizia con il definire chi è il vero filosofo: è colui che ama la verità (aletheia) e non insegue l'opinione (doxa). La verità è l'autentica conoscenza, la quale si può raggiungere solo nella visione dei puri concetti; l'opinione, per contro, è quella conoscenza fallace che deriva dalla comprensione dei soli fenomeni sensibili, i quali sono evidentemente contraddittori. Vi è infatti una netta differenza tra un uomo che ama le cose belle (l'opinione) e un uomo che ama invece la bellezza in sé (la verità). Il primo non può che avere un opinione della bellezza riferita ad una determinata contingenza dei sensi, per cui la bellezza rimane un'esperienza soggettiva legata al gusto personale di chi la considera, il secondo raggiunge la vera conoscenza del bello in quanto ne considera il concetto puro e universale, valido in ogni occasione.

Sul concetto di verità e opinione è bene riportare uno dei miti più celebri di Platone, il mito della caverna (il mito era in Platone un racconto metaforico e simbolico avente come scopo la semplificazione dei concetti da esprimere). Il mito è il seguente:

Platone (per bocca di Socrate) immagina gli uomini chiusi in una caverna, gambe e collo incatenati, impossibilitati a volgere lo sguardo indietro, dove arde un fuoco. Tra la luce del fuoco e gli uomini incatenati vi è una strada rialzata e un muricciolo, sopra la strada alcuni uomini parlano, portano oggetti, si affaccendano nella vita di tutti i giorni. Gli uomini incatenati non possono conoscere la vera esistenza degli uomini sulla strada poiché ne percepiscono solo l'ombra proiettata dal fuoco sulla parete di fronte e l'eco delle voci, che scambiano per la realtà. Se un uomo incatenato potesse finalmente liberarsi dalle catene potrebbe volgere lo sguardo e vedere finalmente il fuoco, venendo così a conoscenza dell'esistenza degli uomini sopra il muricciolo di cui prima intendeva solo le ombre. In un primo momento, l'uomo liberato, verrebbe abbagliato dalla luce, la visione delle cose sotto la luce lo spiazzerebbe in forza dell'abitudine alle ombre maturata durante gli anni, ma avrebbe comunque il dovere di mettere al corrente i compagni incatenati. I compagni, in un primo momento, riderebbero di lui, ma l'uomo liberato non può ormai tornare indietro e concepire il mondo come prima, limitandosi alla sola comprensione delle ombre.

Nel mito della caverna la luce del fuoco rappresenta la conoscenza, gli uomini sul muricciolo le cose come realmente sono (la verità), mentre la loro ombra rappresenta l'intepretazione sensibile delle cose stesse (l'opinione). Gli uomini incatenati rappresentano la condizione naturale di ogni individuo, condannato a percepire l'ombra sensibile (l'opinione) dei concetti universali (la verità), ma Platone insegna come l'amore per la conoscenza (la filosofia stessa) possa portare l'uomo a liberararsi delle gabbie incerte dell'esperienza comune e raggiungere una comprensione reale e autentica del mondo.

2. L'idea

Ogni cosa sensibile è opinione, in esse infatti non si scorge la completezza dei concetti universali, per cui le cose sensibili appaiono diverse da diversi punti di vista (sono opinioni) perché esse partecipano solo in parte alla perfezione dei concetti ma non sono il concetto stesso.

Esempio: esiste il concetto di grandezza che non muta mai pur nel mutare delle cose. Una città può partecipare nelle diverse epoche della sua storia al concetto di grandezza come a quello di piccolezza, essendo prima grande e poi ridiventando piccola, tuttavia il concetto di grandezza, in sé, non muterà mai, poiché identifica necessariamente solo uno stesso stato (non è possibile, infatti, che la grandezza sia allo stesso tempo grande e piccola).

Questo concetto che mai muta viene chiamato da Platone idea (da eidos=forma). L'idea di Platone è allora l'autentico apparire della verità, contrapposta all'opinione che grava necessariamente attorno alle cose del mondo sensibile. L'idea è la forma autentica della realtà, la forma certa e immutabile, quella forma di cui non si può dire per nessun motivo che sia errore ed opinione.

L'idea platonica non è comunque lo stesso concetto universale di ogni cosa presente alla mente degli uomini: nella scala platonica, prima viene l'idea, immutabile e abitante una sua propria dimensione ontologica (vedi capitolo 4), poi viene il concetto dell'idea che si forma nella mente (il concetto è il modo in cui l'idea viene percepita), solo dopo questi si collocano le cose sensibili. L'idea non è il semplice concetto, è un'entità dotata di esistenza vera e propria, una sorta di "oggetto" eterno.

Fatto salvo l'essere che non muta (l'idea), Platone avverte quindi che l'essere sensibile, l'essere delle cose che ci appaiono davanti agli occhi ogni giorno, diventa una realtà intermedia tra l'essere e il non essere. Le cose sensibili, infatti, sono corruttibili, mutano, divengono, si generano e si distruggono, hanno in sé parte dell'idea immutabile di cui sono la forma sensibile e parte del suo contrario (una cosa, ad esempio, è più o meno bella in quanto parte di essa partecipa, oltre che all'idea di bellezza, anche all'idea del brutto).

3. La molteplicità delle idee e il meccanismo di partecipazione agli enti terreni

Dunque, per ogni concetto rivelabile dall'intelletto come immutabile nella sua perpetua astrazione (l'idea in quanto concetto che si pone al di fuori della temporalità), esiste un'idea corrispondente, ovvero, esiste l'idea del cavallo, dell'animale, dell'uomo e di qualsiasi altro ente pensato. Queste idee, vere e proprie "matrici" eterne e perfettissime, vanno a concorrere in diversa misura alla creazione dell'ente terreno. Ad esempio nell'ente terreno "cavallo" entrano in gioco una molteplicità di idee, ovvero l'idea del cavallo, quella dell'animale, quella di quadrupede e quella di bellezza, in parti diverse per ciascun cavallo terreno.

La maggiore o minore bellezza di un cavallo, la sua maggiore o minore purezza di razza, di forza, di resistenza, di velocità, dipende quindi dalla maggiore o minore partecipazione del cavallo terreno alle idee assolute e perfette di bellezza, purezza, forza, resistenza e velocità.

Questo è il meccanismo di partecipazione alle idee perfette degli enti terreni, ogni cosa terrena è opinione proprio perché partecipa in diversa misura a quelle idee assolute che mai verranno a farne parte interamente, perché questo comporterebbe che un ente terreno sia perfetto quando l'idea, cosa impossibile, perché questo non permetterebbe alle cose terrene di mutare e di rappresentare una molteplicità di idee, come in realtà accade nel mondo sensibile.

Si pensi infatti a una cosa bella. Se essa fosse bellezza pura, non parteciperebbe a nessun altra idea che non sia la bellezza assoluta, quindi non potrebbe essere altro che pura bellezza. Questo è impossibile, perché la bellezza, nel mondo sensibile, si riferisce sempre a qualche ente concreto.

4. L'iperuranio: il mondo delle idee

Risulta chiaro, da queste premesse, che esistono due condizioni di esistenza, quella delle idee immutabili (il mondo intellegibile, percepibile dal puro intelletto) e quella degli enti sensibili (il mondo sensibile, percepito dai sensi).
Il mondo degli enti sensibili è il mondo che l'uomo ha davanti agli occhi quotidianamente, in cui gli enti, le cose esistenti, si generano e si corrompono; il mondo delle idee, chiamato da Platone Iperuranio (hyper=oltre; ouranos=volta celeste), è il mondo in cui risiedono le idee immortali e assolute alle quali gli enti terreni e corruttibili partecipano in diversa misura. L'Iperuranio si trova al di là della volta celeste, in una regione da sempre esistente al di là del tempo e dello spazio, è il vero e proprio "caveau" delle matrici, la dimora dei concetti eterni e incorruttibili che rappresentano il riferimento delle cose terrene.

Platone risolve quindi il dilemma tra l'essere immutabile e l'essere diveniente creando due mondi separati: l'Iperuranio rappresenta l'aspetto autentico della realtà nella sua totalità (la verità); il mondo sensibile, rappresentante il mondo dell'incertezza, in cui nulla si può dire di certo che non sia opinione, è un mondo subordinato al primo, solo l'Iperuranio rappresenta infatti la verità, e la verità si pone in una posizione di precedenza rispetto all'opinione.

Ecco perché il vero filosofo, secondo Platone, è colui che si occupa della comprensione del mondo delle idee, il mondo sensibile non rappresenta la verità, e il filosofo, come primo dovere, ha quello di conoscere il vero.

4b. La dialettica: la struttura dell'Iperuranio

Dunque, per ogni cosa terrena esiste una molteplicità di idee iperuraniche che ne vanno a formare la realtà in diversa misura, ogni ente terreno partecipa in diversa misura alle diverse idee assolute.

Quindi non solo il mondo sensibile è caratterizzato dal molteplice (ovvero è formato di cose diverse e divise) ma anche l'Iperuranio è formato da idee immutabili diverse e divise tra loro. L'ordine necessario e immutabile in cui sono riunite le idee dell'Iperuranio è chiamato da Platone dialettica. Essa è la struttura ordinata in cui si pongono in relazione tra loro le idee.

La struttura dell'Iperuranio è piramidale: alla sommità della piramide le idee partecipate dalle idee (e quindi anche dagli enti sensibili), quali, ad esempio, l'idea iperuranica che rappresenta il concetto delle idee iperuraniche, alla base si troveranno le idee che vengono partecipate solo dagli enti sensibili. Nelle posizioni intermedie si troveranno tutte quelle idee che in diversa misura sono partecipate dalle idee delle gerarchie a loro inferiori.

L'Iperuranio si viene a configurare, così, come una struttura complessa e determinata gerarchicamente. Dialogo è una parola che proviene dal verbo greco dialégo, che significa sia "raccolgo, unifico" che "distinguo, divido". La dialettica è allora la struttura unitaria della molteplicità delle idee eterne divise.

Se la dialettica è poi la struttura immutabile dell'Iperuranio, ovvero il modo in cui le idee sono autenticamente in rapporto tra loro, il sapiente, il quale vive nell'opinione delle cose sensibili, dovrà rivolgersi alla conoscenza della dialettica (alla "reminescenza" della dialettica, come si vedrà meglio nel capitolo 7). La dialettica rappresenta allora la verità, ovvero la struttura autentica delle cose e dei mondi.

5. Il Demiurgo e la 'materia madre'

Ma chi e che cosa rende possibile la produzione del mondo sensibile in osservanza delle matrici iperuraniche?

Per permettere agli enti sensibili di partecipare all'intellegibile (ovvero permettere alle idee di dare forma agli enti terreni) occorre che esista un dio creatore, il Demiurgo, ovvero una potenza che è causa del mondo sensibile e proprio per questo è a conoscenza della struttura stessa del mondo dell idee. Il Demiurgo è l'intelligenza che progetta il mondo.

Ma per plasmare il mondo, al Demiurgo occorre una materia che si lascia plasmare. In questo, Platone vede la necessità di separare l'intelligenza creatrice dalla creazione della materia stessa. Il Demiurgo non può far altro che intervenire sulla 'materia madre', ovvero una materia informe, eterna, non corruttibile e plasmabile, da sempre presente nell'universo. La materia madre è il principio femminile del cosmo, ciò che si lascia fecondare dall'azione creatrice del Demiurgo, Platone la chiama anche "chora" (=spazio) o Madre del Mondo.

6. L'immortalità dell'anima, la metempsicosi e il giogo corporeo

Anche l'anima è un'idea. L'anima è ciò che "rende vivo" ogni vivente, ogni vivente è vivo in quanto partecipa dell'idea della vita, e l'anima è l'idea delle cose che sono partecipate dalla vita. Anche l'anima abita l'Iperuranio, e, in quanto idea, è immortale e immutabile: non si può infatti parlare di anima morta, in quanto rappresenterebbe una contraddizione evidente, sarebbe come a dire bellezza brutta o luce buia. Quindi l'anima vive necessariamente, è ciò che vive necessariamente non può morire, quindi è eterna: ogni cosa eterna abita l'Iperuranio.

L'anima, essendo immortale, preesiste al corpo degli uomini, l'anima conosce il mondo eterno delle idee. Vivendo nel mondo delle idee, l'anima conosce la verità, ma quando l'anima si incarna in un corpo, in un ente terreno, essa non è più anima assoluta, ma è anima partecipante all'ente, ovvero è parte dell'anima assoluta. Per questo l'anima dell'uomo, giunta nel mondo sensibile, non è più in grado di ricordare la visione del mondo delle idee perché non è più se stessa interamente.

In questa visione, Platone fa suo il concetto di trasmigrazione dell'anima da un corpo all'altro (la metempsicosi): per Platone l'anima è un'idea eterna che continuamente si reincarna in diversi individui nel corso della sua esistenza. Le anime che durante il periodo passato tra una reincarnazione e l'altra hanno potuto più a lungo guardare il mondo delle idee sono, nel mondo terreno, le anime dei saggi; quelle che hanno potuto vedere il mondo delle idee per un periodo più breve sono, diversamente, le anime degli individui più gretti. Più l'anima ha contemplato le idee, più è saggia, meno le ha contemplate, più è gretta.

Nel Fedro, Platone propone il mito della biga alata per spiegare il viaggio dell'anima: l'anima è come un auriga (la ragione) che guida una coppia di cavalli, uno è bianco e rappresenta la tensione verso il bene e la spiritualità, l'altro è nero e rappresenta la tensione verso il basso, agli istinti e alle passioni degradanti e materiali. L'auriga, la ragione, è naturalmente portata a conoscere il bene e a farsi guidare dal cavallo bianco, ma il cavallo nero continuamente strattona il suo compagno per condurlo dalla parte opposta. Le anime che più si fanno guidare dal cavallo bianco, sono le anime che più si avvicinano alla verità. L'intero processo di reincarnazione comporta poi che l'anima sia continuamente influenzata dall'esperienza terrena precedente: le anime che maggiormente tendono al bene sono quelle che nell'esistenza terrena precedente sono appartenute a uomini eticamente validi. Ogni esperienza precedente trascina nella vita successiva il suo carico di virtù e di difetti.

L'anima può porre termine al ciclo di reincarnazioni quando trova la forza di liberarsi completamente da ogni giogo terreno: il corpo è per l'anima una gabbia, la tendenza naturale dell'anima, infatti, è quella di ascendere verso la spiritualità pura, il fine ultimo di ogni autentico sapiente. Il sapiente, infatti, sa che il mondo delle idee è la verità suprema alla quale deve attenersi, il mondo terreno non racchiude alcuna verità.

Si può notare come questa parte del pensiero platonico sia fortemente influenzata dalle filosofie e dai riti orientali (induismo e buddhismo), la cui influenza in Grecia si può riscontrare nell'Orfismo, una serie di riti iniziatici misteriosi e fortemente impregnati di misticismo, ai quali già si ispirò Pitagora.

7. La reminescenza

Se l'anima dell'uomo ha dimenticato ogni cosa vista nell'Iperuranio, conoscere le cose del mondo sensibile significa riportare alla mente, ricordare, ridestare dalla memoria cose già conosciute: la reminescenza. Durante l'incarnazione dell'anima in un corpo, il trauma della nascita cancella la conoscenza delle idee, ma la loro memoria rimane comunque impressa nel profondo dell'anima stessa. Il processo di crescita e di conoscenza di un individuo è quindi un riportare alla luce le idee dimenticate.

Quando infatti conosciamo qualcosa del mondo sensibile, ce ne facciamo un concetto, e il concetto che si forma nell'intelletto, proprio per la sua natura universale e la sua funzione di modello ideale, avrà sempre una maggiore perfezione rispetto alle cose sensibili. Questa precedenza dell'intellegibile rispetto al sensibile indica, secondo Platone, la precedenza dei concetti rispetto agli oggetti sensibili, per cui le idee dei concetti preesistono necessariamente alla loro realizzazione sensibile, conoscere non può che essere una attività di riconoscimento di questi concetti universali, i quali, proprio perché validi sempre indipendentemente dalle singole cose realizzate, sono eterni e salvi sotto forma di idee nell'Iperuranio, non potendo distruggersi nel distruggersi delle cose terrene.

8. Le facoltà dell'anima

L'anima non si distingue solamente per la possibilità di conoscere e di ragionare, in essa si distinguono tre facoltà: la facoltà razionale, quella appetitiva e quella passionale.

La facoltà razionale è la facoltà che permette all'uomo di ragionare oggettivamente seguendo le regole della logica. E' una facoltà molto importante, la reale conoscenza, infatti, non può prescindere da un corretto funzionamento di tale facoltà;

La facoltà appetitiva è la parte dell'anima più istintiva, la parte caotica e primordiale, indocile, fortemente autonoma e meno arrendevole all'azione della ragione;

La facoltà passionale è quella parte dell'anima che genera le passioni, le quali si distinguono dai puri appetiti perché, a differenza di essi, si lasciano dominare più facilmente dalla ragione. Le passioni sono i sentimenti umani che nascono dalle ingiustizie, lo sdegno e l'ira, ad esempio.

L'uomo giusto è allora colui il quale con la ragione tiene a bada appetiti e passioni, in modo da permettere ad ogni essere umano di conoscere la verità costituita dal mondo delle idee senza lasciarsi sopraffare dal sonno della ragione provocato dalle passioni e dagli istinti.

9. Il parricidio: la soluzione platonica del contrasto tra il divenire e l'essere

Platone considera Parmenide tanto importante per la sua formazione da chiamarlo padre: il maestro eleatico viene definito da Platone, "venerando e terribile" (nel dialogo Parmenide), tanto che quando si accingerà a formulare una nuova teoria dell'essere in polemica con il maestro, Platone definirà la sua posizione come un parricidio. In cosa consiste, dunque, questo parricidio?

Parmenide (per il quale l'essere è sempre, mentre il non-essere non è mai) afferma che le cose del mondo sensibile sono opinione e falsità, ovvero il loro mutare, il loro divenire, è un'illusione, poiché l'essere non può divenire e trasformarsi in cose diverse, questo infatti comporterebbe la possibilità che l'essere non sia più identico a se stesso, sia altro da sé (si veda il capitolo su Parmenide). Ma l'innegabile mutare delle cose del mondo, il loro divenire, è così evidente che per Platone occorre salvare questa evidenza e trovare un punto di incontro tra il divenire e l'essere immutabile parmenideo.

Per fare ciò, nel Sofista, Platone elabora il concetto di essere relativo, fatto salvo però anche il concetto di essere assoluto.
Platone non può che essere d'accordo con Parmenide nel caso ci si riferisca all'essere assoluto: questi non potrà mai essere qualcosa diverso da sé, ovvero l'essere assoluto non muta e non diviene.
Nel caso dell'essere relativo il ragionamento di Platone è il seguente: una cosa può mutare dallo stato di essere una certa cosa a uno stato di non essere più quella certa cosa, essendone comunque un'altra. E' infatti impossibile che una cosa non sia: il non essere si riferisce allora solo al non essere più qualcosa che in realtà è comunque un'altra, nel mutare delle forme. In pratica, l'essere può mutare perché diventa un altro essere, non cade nel nulla ma cambia forma.
Nel concetto di essere relativo, l'esistenza del molteplice implica l'esistenza del non-essere non come opposto assoluto all'essere ma come diverso dall'essere assoluto.

In sostanza l'ontologia di Platone tende ad unificare il divenire e l'essere in un'unica filosofia, anche se lascia invariata la dicotomia fra i due. All'essere spetta l'anima e il mondo delle idee, al divenire la doxa e il corpo. E' chiaro che all'essere da valore di immutabilità e archè, mentre al divenire da valore di mutabilità e contingenza e quindi inevitabilmente falsità.

10. La visione dello Stato in Platone: la realizzazione pratica del bene

Larga parte del lavoro di Platone è dedicata alla costruzione di una teoria politica destinata, nei suoi intenti, ad essere applicata nella fondazione di uno stato ideale, ovvero uno stato che rappresenti la forma di giustizia realizzata più alta e più definitiva. E' il dialogo Repubblica che contiene le indicazioni per la costruzione di tale stato. L'idea è che se la verità deve guidare il sapiente e il giusto nella formazione dei suoi concetti, tale verità deve avere necessariamente un carattere pratico e specchiarsi, quindi, in una forma completa di verità pratica (espressa nelle forme dello stato indicate da Platone).

Tutto questo discorso conduce inevitabilmente all'affermazione platonica che la filosofia e i filosofi devono guidare lo Stato: se lo Stato deve infatti rappresentare la verità, solo i filosofi che si rivolgono alla verità dell'Iperuranio e non all'opinione del mondo terreno possono mettersi alla guida delle istituzioni, in modo da sviluppare quel principio etico necessario alla verità che è la tendenza alla realizzazione del bene.

Lo Stato di Platone è considerato il primo esempio di Utopia politica, ovvero la proposta organica di una struttura statale che sia in grado di realizzare il bene degli uomini nella forma più alta e più risolutiva (altri esempi di questa forma di letteratura saranno l'Utopia di Tommaso Moro e La città del Sole di Campanella). Lo scopo di Platone è quello di agevolare la comprensione della verità delle idee nella totalità dei cittadini.

Quella che segue è la descrizione per sommi capi della struttura dello Stato proposta da Platone.

Nella Repubblica ideale verrà necessariamente tenuto conto della diversa natura di ciascun uomo, l'anima di ciascun uomo è infatti partecipata in diversa misura da diverse idee (vedi capitolo 6) che ne determinano l'originalità: esistono quindi uomini tendenzialmente agricoltori, altri artigiani, altri ancora guerrieri e altri filosofi. Nello Stato ideale ciascun tendenza naturale verrà separata e raggruppata in classi immutabili, poiché se la natura di ciascuna anima è immutabile, sarà immutabile anche l'appartenenza degli uomini a una certa categoria.

Le classi che devono guidare lo Stato sono, nell'ordine, i filosofi (coloro che posseggono più degli altri la verità) e i guerrieri (i militari che agiranno da garanti del volere dei filosofi e da difensori dai nemici esterni). Queste due classi governeranno le classi inferiori costituite dagli artigiani e dai contadini, le classi produttrici dei beni necessari alla comunità. Le classi dominanti, tuttavia, non dovranno preoccuparsi solo del proprio bene, ma del bene comune a tutti, cosicché verranno abolite tutte quelle occasioni che potranno invogliare i reggenti alla cupidigia (prima fra tutte, verrà abolità la proprietà privata, quindi la famiglia, le donne saranno comuni a tutti gli uomini e l'educazione dei figli sarà pianificata dallo Stato secondo le diverse inclinazioni dei ragazzi).

La famiglia deve essere abolita in quanto ostacolo all'interesse comune, i padri e le madri, per amore dei figli, agirebbero arbitrariamente in loro favore. In uno Stato in cui non vi sono più nuclei familiari, il compito di generare figli spetterebbe quindi alle donne liberate da ogni legame, esse genereranno figli abbinate casualmente e periodicamente a uomini diversi, i figli stessi saranno, appena nati, espropriati dai genitori e cresciuti dall'intera comunità. Essi non verranno a sapere da chi sono nati e chiameranno padre e madre ogni uomo e ogni donna della comunità.

L'educazione dei ragazzi seguirà tappe precise: ad essi, come al resto della comunità, verranno proibiti i contatti con l'arte e con la poesia, colpevoli di proporre imitazioni fuorvianti del mondo delle idee (gli artisti imitano il bello allontanando gli uomini dal vero concetto del bello) e di condurre gli animi all'eccessiva contemplazione delle forme sensibili. I ragazzi saranno educati allo sviluppo del corpo e dell'anima, attraverso le discipline militari e quelle musicali (musica era chiamata ogni disciplina avente per oggetto la crescita dello spirito). Essi saranno poi introdotti nelle classi secondo le proprie inclinazioni naturali.

Se, a prima vista, la struttura statale platonica assomiglia a una tirannide dai tratti spartani, è bene ricordare che non è così. Lo Stato di Platone è un' "aristocrazia", ovvero il dominio dei migliori (i migliori sono rappresentati dai filosofi, che sono a conoscenza della verità). Lo stato spartano è invece una "timocrazia", ovvero il dominio dell'ambizione. Tale dominio porta all' "oligarchia", al dominio di pochi, per poi entrare in crisi e sfociare nella "democrazia", ovvero l'abolizione dei privilegi dei pochi che costituivano l'oligarchia. Infine, sempre secondo Platone, la democrazia tenderà alla tirannide, ovvero l'arbitrio assoluto di un solo reggente che decide senza alcuna idea di verità circa la vita e la libertà dei suoi sudditi.
Lo Stato platonico differisce dalle altre forme storiche di stato perché in esso le regole istituzionali sono espressione della struttura autentica della realtà: tutto, nello Stato platonico, tende a realizzare la vita in conformità della verità espressa dal sistema di pensiero Platonico, specchio stesso della struttura del Tutto.

 

 


ARISTOTELE
(384-324 a.C.)

Aristotele nacque a Stagira, ai confini con la Macedonia. Fu allievo di Platone e ne frequentò l'Accademia, ma dopo la morte del maestro lasciò Atene e fondò una propria scuola ad Asso. Nel 342 venne chiamato da Filippo II re di Macedonia per fare da istitutore al figlio, Alessandro Magno, futuro conquistatore del medio Oriente e della Persia.

Nel 336, quando Alessandro salì al trono, ritornò ad Atene e fondò il suo Liceo, una scuola che per un certo periodo superò in prestigio l'Accademia platonica. Con la Morte di Alessandro e il conseguente ritorno ad Atene di un clima antimacedone venne costretto all'esilio nella Calcide, dove morì pochi mesi dopo.

Il corpo principale delle opere di Aristotele, divise in gruppi tematici da Andronico di Rodi, sono:

1. Opre di logica: Categorie, Organon, Elenchi sofistici.
2. Opere fisiche: Fisica, Meteorologia, Anima.
3. Opere etiche: Etica nicomachea, Magna moralia.
4. Opere linguistiche: Retorica, Poetica.
5. Opere biologiche: Ricerche sugli animali (zoologia), Le parti degli animali (anatomia), Riproduzione di animali (genetica), Movimento degli animali.

Le opere si dividono in esoteriche, rivolte ai soli studenti, ed essoteriche, rivolte al vasto pubblico; di queste ultime però si è persa ogni testimonianza.

Aristotele fu il primo vero "scienziato" della storia occidentale: fu un grande organizzatore del sapere, suoi i primi ragguagli storico-teoretici sui presocratici, sue le prime raccolte organiche del sapere logico, fisico e biologico; grande osservatore della natura, non dimenticò di cimentarsi in importanti studi sull'etica e sulla retorica.

Il suo metodo di indagine venne preso a modello dalla Scolastica, per i cristiani diventò un'auctoritas nel campo delle scienze, della metafisica e della cosmologia (si veda Tommaso d'Aquino). Proprio per questo la filosofia di Aristotele, diversamente da quelle di altri pensatori greci, rimase viva lungo tutto il corso del medioevo grazie all'apporto dei teologi cristiani che ne fecero proprie le conclusioni più importanti.

1. Le divisioni della conoscenza

Per Aristotele ogni cosa è un ente, ovvero ciò che tutte le cose hanno in comune è il loro "essere qualcosa", un ente, appunto. L'ente è la sintesi tra una certa determinazione (ovvero l'essere una certa determinata e non un'altra) e la loro esistenza (ovvero una cosa dotata di presenza mondana): l'ente è allora una determinazione dotata di esistenza, ovvero una cosa che esiste ed è fatta in un certo modo.

Per Aristotele, dunque, la conoscenza si divide in diverse parti:

1. Le scienza pratico empiriche, ovvero tutte quelle forme di conoscenza che si riferiscono all'ente in quanto determinato: sono le discipline che si concentrano sull'analisi di un particolare aspetto dell'ente, la medicina indagherà allora l'ente in quanto corpo, l'astronomia l'ente in quanto "oggetto celeste", la biologia l'ente in quanto organismo vivente, la politica l'ente in quanto cittadino e così via. Tali discipline si occupano dei fenomeni e dei casi particolari pratico-empirici;

2. Le scienze teoretiche, ovvero teorico-astratte, che non si occupano di analizzare gli aspetti particolari degli enti ma ne individuano le cause necessarie, ovvero portano alla luce il modo in cui gli enti particolari si manifestano. Esse sono la fisica, la matematica e la logica. La prima si occupa di determinare le cause dei corpi materiali, la seconda di tradurre in rapporti numerici la realtà, la terza esprime invece le leggi inderogabili e necessarie alle quali sono soggetti tutti gli enti;

3. La metafisica, scienza prima. Vi è una scienza, secondo Aristotele, che si pone al di sopra delle altre, ed è la scienza che si occupa degli enti in quanto enti, ovvero dei meccanismi inerenti alle cause e le necessità dell'ente preso e analizzato per la sua caratteristica di essere "qualcosa che esiste". Tale scienza è la metafisica, o ontologia, ovvero "scienza dell'ente". Questa scienza non può che non essere predominante rispetto alle altre, in quanto, studiando le proprietà dell'ente in quanto ente, permette di conoscere le proprietà di ogni altra determinazione. Vedremo in seguito come la metafisica diverrà nucleo centrale di molta parte del pensiero filosofico successivo, fino ad essere negata dalla filosofia contemporanea.

Detto questo occorre precisare che Aristotele concede pari dignità ad ogni scienza, ogni scenza è un legittimo ambito di conoscenza, diversamente dall'atteggiamento platonico che svalutava la ricerca sugli enti sensibili in quanto derivazione imperfetta degli enti eterni oltre-sensibili (si può dire che in Platone vi è una preminenza della sapienza concettuale a scapito di quella fisica, mentre in Aristotele è salda la convinzione che ogni ambito, soprattutto quello fisico-sensibile, è meritevole di indagine).

2. Le critiche a Platone

Aristotele fu allievo di Platone all'Accademia, ma per sviluppare le sue teorie egli partì da una critica alle teorie del maestro. In particolare, Aristotele critica la teoria delle idee con un argomento che prenderà il nome di "terzo uomo" (anche se tale critica, per amor di verità, fu già presa in considerazione da Platone nel dialogo Parmenide, in veste di critico di se stesso).

L'argomento del "terzo uomo" è questo: se esiste l'idea dell'uomo ideale e il concetto dell'uomo sensibile che è solo partecipe di quello ideale, occorre allora che vi sia un ulteriore idea che esprima quest'insieme di concetti. A sua volta deve esistere un ulteriore idea che abbracci quest'idea e un altro ancora che contenga, in un gioco infinito di scatole cinesi, tutto l'insieme di idee che che si accumulano annidate una dentro le altre. Così, per ogni idea, vi sarebbe associato un numero infinito di idee. Questo creerebbe una incontrollata espansione all'infinito delle idee eterne presenti nell'Iperuranio. Ogni idea che giunge all'intelletto dell'uomo, infatti, deve avere la sua necessaria controparte nel mondo delle idee.

Aristotele critica anche l'impostazione platonica che vuole l'idea assolutamente trascendente rispetto all'ente sensibile. Come può l'ente sensibile partecipare un qualcosa che gli sta totalmente al di fuori? E ancora, come può un uomo essere diverso dall'idea "ideale" di se stesso? Infatti, l'idea che rappresenta idealmente tutte le qualità di un uomo non può non essere che identica all'uomo stesso se ne vuole essere un'immagine perfetta, e quindi non si capisce come l'ente sensibile possa essere meno perfetto dell'idea eterna.

Per uscire da queste contraddizioni, Aristotele sposterà l'attenzione dall'idea immutabile alla sostanza. La sostanza sarà quella qualità che compete esattamente all'ente (all'uomo, nell'esempio) in grado di rendere un certo ente ciò che è, ne più ne meno, entro gli esatti limiti della sua determinazione.

3. La sostanza: il sinolo forma/materia

La sostanza (dal latino sub-stantia, "stare sotto", "sorreggere") è ciò che permette all'ente di essere determinato in un certo modo, ovvero la qualità senza la quale un certo ente sarebbe diverso da ciò che è (ovvero, senza la quale sarebbe un altro ente avente una diversa determinazione).

Per ciò che riguarda soprattutto gli enti sensibili, si può definire la sostanza come un'unione di forma e materia. Tale binomio viene chiamato da Aristotele "sinolo" (synolon). Vediamo meglio in cosa consiste questo sinolo.

Un ente è ciò che è e non un'altra cosa proprio perché ha una certa forma, forma che si plasma a sua volta entro una materia, che può essere anche più di una per ciascun ente (ad esempio, una finestra è composta dalla sostanza "vetro" e dalla sostanza "legno" o "alluminio").

La combinazione forma/materia, il sinolo, determina in modo necessario ciò che un ente è: ad esempio la candela è la combinazione di una forma (una forma più o meno affusolata attraversata all'interno da uno stoppino che ne spunta a un'estremità) con una determinata materia (la cera più la materia dello stoppino).

Aristotele ci dice anche che esistono qualità accidentali (dal latino accidens, dal verbo accidere, "cadere sopra", "accadere", "capitare"). Gli accidenti sono quelle qualità che si possono aggiungere all'ente pur non mutandone la sostanza: ne deriva che mentre una sostanza non abbisogna di nulla per esistere se non di forma e materia, non accade che un accidente sia ente senza che si leghi a una sostanza (ad esempio, l'accidens relativo a una candela potrebbe essere il suo colore o le diverse forme che potrebbe assumere la cera).

3b. Materia prima e materia seconda

Come si è potuto vedere, gli enti sono composti da diverse materie e da diverse forme, ovvero da diversi sinoli, a loro volta composti da una certa forma e da una certa materia (ovvero da altri sinoli).

Visto che ogni ente sarebbe composto da una sequenza infinita di sinoli, ovvero da una sequenza infinita di sostanze che vanno a comporne la sostanza, e visto che questo equivarrebbe a dire che l'ente è composto da nulla, Aristotele individua l'esistenza di una materia prima, con le caratteristiche della "materia madre" platonica. La materia prima è una materia che non ha alcuna forma, è priva di ogni determinazione, altrimenti sarebbe una sostanza (un sinolo) e a sua volta avrebbe bisogno di un'altra sostanza che la giustificasse; la materia prima è quindi una materia pura, eterna e plasmabile.

Tutte le forme di materia che non sono materia prima, sono chiamate da Aristotele materia seconda.

4. Atto e potenza

Un'altra distinzione aristotelica riguarda quella tra atto e potenza. La potenza è la predisposizione della materia ad assumere una certa forma, è quella forza passiva che permette alla forma di plasmare la materia secondo i suoi dettami. L'atto è invece la forma stessa realizzata, ovvero la materia plasmata sotto l'azione della forma.

Questi due termini permettono di illustrare, per Aristotele, la meccanica del divenire. Il mutamento si esprime infatti nel passaggio da un certo ente ad un altro, è quindi il passaggio da uno stato potenziale (la potenza) per cui un ente è predisposto strutturalmente ad accogliere un'altra forma e a volte anche un'altra materia, a uno stato realizzato (l'atto) per cui l'ente ha ricevuto di fatto quella forma e quella materia che erano già presenti potenzialmente nelle sue possibilità. (ad esempio, l'acqua è potenzialmente predisposta a divenire ghiaccio, allo stesso modo in cui un blocco di marmo è predisposto a divenire una statua o una colonna).

5. La meccanica del divenire: il sostrato

Poiché il divenire e il mutamento degli enti sensibili è accertato dall'evidenza, anche Aristotele si pone il problema di trovare una spiegazione al passaggio di un ente determinato dallo stato di essere una certa cosa a non essere più quella cosa, ma un'altra.

Il ragionamento di Aristotele attorno alla meccanica del divenire parte dal fatto che debba esistere qualcosa che regga il mutamento: se mutare significa cambiare forma ma anche sostanza, occorre capire qual è quel qualcosa che permetta agli enti che mutano di essere accompagnati da uno stato all'altro evitando che, ad un certo punto del passaggio, cadano nel nulla.

Si prenda, ad esempio, il mutamento della legna in cenere. Chiameremo la legna A, e la cenere B. A è non-essere di B, ovvero A è la privazione di B. Al termine del mutamento, A ha preso la forma di B, o meglio, la sostanza A è diventata la sostanza B, due sostanze diverse tra loro (ciò che prima era la sostanza "legna", è diventata la sostanza "cenere"). In questo processo manca però qualcosa, perché non è possibile che A diventi B senza qualcosa che li veicoli, infatti A come privazione di B è puro non-essere, un nulla.

Ciò che manca ad A è B è un "sostrato", ovvero qualcosa che rappresenti il veicolo, la base permanente del divenire: un diveniente che permane. Il sostrato del divenire degli enti sensibili è la materia prima, materia eterna e informe priva di ulteriore sostrato, in quanto sostrato essa stessa.

Dunque, in questo meccanismo, la privazione rappresenta la potenza della forma (potenza come non-essere della forma alla quale si tende) mentre l'atto è la forma finale realizzata. Il divenire è quindi il passaggio dalla potenza all'atto, come si è visto nel capitolo 4.

6. Il movimento: "Omne quod movetur ab alio movetur"

La necessità di non privare di un sostrato ogni fase in cui si trova l'ente nel processo di mutamento, implica che anche ciò che permette alle cose di passare da una forma all'altra abbia una sua consistenza. Aristotele chiama ciò che permette alle cose di mutare "movente" o "motore".

In altre parole, il passaggio da una sostanza all'altra ha bisogno di qualcosa che faccia mutare la sostanza iniziale nella sostanza finale, un qualcosa che muova una sostanza verso l'altra. Nel caso della legna e della cenere la sostanza che permette il passaggio dal primo ente al secondo è il fuoco. A sua volta anche il fuoco deve avere un suo movente, ovvero qualcosa che lo accenda, qualcosa che lo faccia uscire da uno stato potenziale per diventare un fuoco in atto. Ma anche ciò che muove il fuoco deve avere una causa alle spalle che lo muove a sua volta. "Omne quod movetur ab alio movetur" (letteralmente "Tutto ciò che si muove da altrove si muove", o ancora, ogni mosso ha un movente alle spalle che lo fa muovere).

7. Le quattro cause delle cose

Aristotele chiama causa (in greco, "aitìa") ciò che permette alle cose di essere e di mutare, ciò senza di cui ogni mutamento e ogni cosa sarebbe impossibile. Si distinguono quattro tipi di cause:

1. La causa formale, ovvero la forma che una cosa deve necessariamente possedere per essere qualcosa (si veda capitolo 3);

2. La causa materiale, ovvero la materia prima, il sostrato senza il quale le cose non potrebbero prendere una forma (si veda il capitolo 5);

3. La causa efficiente, ovvero il movente, la sostanza che permette al sostrato di mutare da una forma all'altra (si veda il capitolo 6);

4. La causa finale, ovvero il fine a cui ogni cosa tende e che ne rappresenta la base stabile; di questa causa si parlerà nel capitolo successivo.

8. Il motore immobile

Ogni cosa che si muove ha un movimento alle spalle che la fa muovere, ogni mutamento ha un mutamento alle spalle che lo rende possibile: questa catena di cause però non può essere infinito, rimandare all'infinito le cause efficienti sarebbe come ammettere che lo stesso movimento non trovi mai riposo in nessuno stato veramente consistente e la stessa causa delle cose si perderebbe, a monte, nel nulla.

Ecco perché Aristotele individua l'esistenza necessaria di un qualcosa che rappresenti la causa originaria di ogni cosa, un primo movente che dia il moto ad ogni altra cosa ma che sia immobile: un motore immobile, o primo motore.

Tale primo movente è Dio, ovvero la prima causa di tutto (causa incausata, senza una causa alle spalle) che da consistenza alla catena delle altre cause moventi, un puro atto, senza potenza, perché se fosse potenza dovrebbe avere alle spalle un ulteriore atto che gli permetta di essere potenza di qualcosa. Dio è eterno e immutabile, proprio perché non è soggetto al divenire e al mutamento, ma ne è causa finale, ovvero ciò in cui ogni movimento trova base stabile e sicura entro cui accadere. E' infatti indubbio, per Aristotele, che ogni cosa che accade debba necessariamente accadere entro un alveo che permetta agli avvenimenti di manifestarsi, la regione stabile entro cui tutto il divenire si manifesta è garantita da Dio, ovvero dall'essere immutabile. Dio, per Aristotele, non ha evidentemente quei tratti cristiani che prenderà successivamente, Dio è per il filosofo macedone la base stabile che garantisce ad ogni cosa di non essere un nulla.

Dio per Aristotele è il garante dell'alveo entro cui si sviluppa ogni divenire, Dio è la sostanza certa e sempre in atto, immutabile perché non soggetta al divenire e al passaggio dalla potenza all'atto. Se ogni cosa che è mossa ha un movente alle spalle, e in questo passaggio viene conservata sempre una sostanza, allora in Dio sono già presenti tutte le sostanze che si producono nel corso dei processi di produzione e mutamento delle sostanze.

La differenza tra l'Iperuranio platonico e il Motore Immobile aristotelico, che sono uniti nel rappresentare l'immutabilità e l'eternità che garantisce che tutto non sia nulla, sta nel fatto che, mentre per Platone l'immutabile è completamente trascendente all'essere terreno, per Aristotele l'immutabile è esso stesso presente nell'essere terreno. Come si è visto, infatti, ogni sostanza si risolve nella sostanza suprema, nel "sostrato dei sostrati", nell'entità che garantisce realmente e necessariamente la concretezza sostanziale (la sostanza) di ogni ente.

9. La logica aristotelica: il sillogismo

Se la logica è sempre stata, anche prima di Aristotele, lo strumento primo della filosofia (ovvero lo strumento che permette di rapportare i concetti tra loro secondo leggi che rispecchiano il modo in cui la realtà viene interpretata) è per la prima volta con Aristotele che essa esce dall'essere sottintesa per diventare la protagonista dichiarata delle dimostrazioni filosofiche. L'organizzazione della logica in un corpo strutturato è opera dello stesso Aristotele.

La logica di Aristotele è quella che oggi possiamo definire "analitica", la logica che risolve i ragionamenti complessi nelle sue parti e ne chiarisce passo passo la veridicità di ogni elemento ("analitica", dal verbo greco analyo, "sciolgo", "risolvo nelle sue parti"). Per fare ciò, Aristotele si affida uno strumento logico: il sillogismo.

Il sillogismo, nella sua forma generale, si divide in tre parti: una premessa iniziale, un termine medio, e una conclusione finale. L'esempio classico: "L'uomo è un animale, Socrate è un uomo, quindi Socrate è un animale" (curioso come Socrate sia infilato ovunque, annotazione personale). Tutte è tre le parti sono affermazioni attestate dalla realtà evidente e immediata, ma possono anche derivare da conclusioni a loro volta attestate da altri sillogismi, come è evidente che le stesse affermazioni immediate non possono contraddirsi anche se analizzate.

Si può notare come il termine medio sia quello che "trasporta" e "svuota" il significato della premessa nella conclusione. La premessa e la conclusione esprimono allora la stessa verità, il termine medio permette alle due parti estreme di comunicare in modo necessario tra loro (il termine medio rappresenta l'affermazione che chiarisce l'identità degli estremi).

Tuttavia esiste ugualmente un inconveniente che grava sul sillogismo: il problema delle premesse. "La caratteristica più rilevante della necessità che nel sillogismo conduce dalle premesse alle conclusioni è che essa sussiste anche se le premesse del sillogismo non hanno verità epistemica; anzi, quella necessità sussiste anche se le premesse sono false" (E. Severino, La filosofia antica). Il sillogismo prende corpo da una premessa: se tale premessa non è dimostrata come vera o è addirittura falsa, ogni conclusione del sillogismo sarà ugualmente valida, indipendentemente dal fatto che rappresenta una falsità.
Ad esempio, se prendiamo come vera la premessa "Tutti i sassi sono uomini" e il termine medio "tutti gli uomini parlano" allora è vera la conclusione che "tutti i sassi parlano".

Anche lo stesso Aristotele, conscio del problema, darà avvio nei Topici allo studio dei "sillogismi dialettici", intesi come sillogismi che contengono premesse e termini non evidenti ma verosimili (in epoca moderna, la logica formale si occuperà proprio del problema di come, partendo da certi postulati, si possa arrivare a un certo insieme di proposizioni). Comunque sia, la verità delle premesse sulle quali fondare il processo deduttivo del sillogismo è per Aristotele l'evidenza stessa dei processi naturali (il dato empirico certo ed evidente).

10. Il principio di non contraddizione

Il principio di non contraddizione è uno dei più celebri principi della logica, nonché quel principio che agisce sempre è incontrovertibilmente in ogni aspetto della realtà, nonostante in epoca contemporanea larga parte della filosofia intenda, con la svalutazione della logica, negare anche la validità di tale principio.

Il principio si presenta in questa forma, secondo le parole dello stesso Aristotele: "E' impossibile che, per il medesimo rispetto, la stessa cosa sia e non sia". In questi termini, tale principio si pone a fondamento di ogni altra considerazione logica. "Nel medesimo rispetto" significa che i due termini sono perfettamente escludenti solo se sono perfettamente contrari l'uno all'altro: quando vi è uno, è impossibile che vi sia l'altro, nel medesimo rispetto (ad esempio, una cosa non può essere alta e bassa nel medesimo rispetto, tuttavia può essere alta rispetto ad una cosa, e bassa rispetto ad un'altra).
Anche i negatori della logica e del principio sembrano essere soggetti al principio stesso: chi afferma che "la logica non è valida e quindi anche il principio di non contraddizione non è valido" è costretto, in questo ragionamento, ad utilizzare lo stesso principio, infatti essi è come affermassero: "dato che la logica non è valida, allora è impossibile che il principio rappresenti una qualche logica, perché è da escludere che la logica possa essere contemporaneamente valida e non valida". Ogni dimostrazione, dunque, non può prescindere dal "principio di tutti i principi", secondo ciò che scrive Aristotele, il quale dimostra nel IV libro della Metafisica, in modo analogo, ciò che è stato esposto qui sopra.